martedì 12 maggio 2020
Severa analisi dell’economista francese sui rischi delle politiche di controllo epidemico su democrazia e libertà, pur partendo dall’urgenza sociale del ritorno al pubblico, soprattutto nella sanità
Virus e potere. Prove tecniche di distopia?
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Gaël Giraud (1970), economista, gesuita, è direttore di ricerche al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique), fa parte del Centro di economia della Sorbona; insegna all’École nationale des ponts et chaussées di Parigi e all’università di Stellenbosch, in Sudafrica. Con Transizione ecologica. La finanza al servizio della nuova frontiera dell’economia (Emi) ha vinto il premio Letteratura e industria di Biella. E’ stato nominato presidente onorario del-l’Institut Rousseau, fondato a marzo nella capitale francese con l’intento di essere «un crocevia di differenti culture politiche, all’incrocio tra la democrazia sociale, l’ecologia e il pensiero repubblicano», come ha scritto il quotidiano “Le Monde” dando la notizia. Il testo che qui pubblichiamo è comparso nei giorni scorsi sul sito della rivista francese “Études”; in esso Giraud sviluppa temi al centro di una sua riflessione per il quaderno numero 4075 della “Civiltà Cattolica” e anticipata da “Avvenire” il 3 aprile scorso, con il titolo Mano pubblica nella ripresa dopo l’emergenza Covid–19.

Privatizzare la sanità significa darle un costo che, inevitabilmente, sarà troppo elevato per i più deboli tra di noi. Significa negare ai più poveri il diritto di vivere in buona salute e far correre a tutti un rischio che la pandemia oggi rivela chiaramente: quello di essere contaminati tutti, ricchi e poveri. Il coronavirus mette dunque in evidenza una verità semplice: nessuna società umana può arginare una tale pandemia (e questa non sarà l’ultima) senza un potente sistema sanitario pubblico. Ma questo «ritorno» necessario dello Stato si accompagna a una scelta decisiva che le nostre società devono fare. Le tecniche di sorveglianza destinate a tracciare il virus aprono in effetti la strada a una radicalizzazione dell’imbrigliamento poliziesco dei cittadini. Usate in modo massiccio in Cina, le telecamere di sorveglianza legate ad algoritmi di identificazione dei volti, le applicazioni sui nostri telefoni portatili, i braccialetti capaci di registrare continuamente i nostri polsi sono gadget tecnologici certamente efficaci per identificare i portatori del virus e metterli in quarantena. Ma lo sono anche per controllare una popolazione. I milioni di uighuri che languono oggi nei campi di rieducazione dello Xinjang, in Cina, ne sanno qualcosa. La storia è piena di misure adottate nell’urgenza che non sono mai state abolite, anche quando il pericolo è sparito.

Ultimo esempio, in Francia, le misure di urgenza adottate dal governo dell’epoca del presidente Hollande di fronte alla minaccia terroristica, e iscritte nel diritto comune dal governo dell’era Macron. Se le misure prese per far fronte alla crisi sanitaria devono servire come alibi a un rafforzamento dell’arsenale poliziesco dei nostri regimi ritenuti democratici, allora questa crisi darà ragione al filosofo Giorgio Agamben. Una delle sue affermazioni forti, in effetti, contenuta in Homo sacer (Quodlibet), è che il potere si manifesta attraverso l’esercizio di un diritto d’eccezione per il quale il sovrano dispone della vita umana. Più precisamente, mediante la decisione, riservata al sovrano, di allontanare un individuo dalla vita della città. Ovvero, il ridurlo a «una vita nuda», ricondotta alla sua più semplice espressione biologica. E’ il caso, come noto, del diritto romano antico: l’homo sacer era l’uomo privato di ogni diritto per decisione del sovrano, indegno di essere sacrificato per gli dei ma che ciascuno poteva uccidere senza commettere omicidio. Una vita votata alla morte in tutta impunità. Questa tesi coniuga l’eredità di Michel Foucault e Carl Schmitt. Da Foucault, Agamben ha preso il fatto che, dal XVIII secolo, il potere politico in Occidente si interessa prima di tutto della biopolitica e si rivolge «alla molteplicità degli uomini come massa globale interessata da processi d’insieme che sono propri della vita », tra le quali le epidemie giocano un ruolo decisivo.

Dal giurista tedesco Carl Schmitt, Agamben pensa di aver appreso il fatto che la sovranità si definisce tramite il regime d’eccezione grazie al quale il sovrano può estraniarsi dal corso normale del diritto, decretare uno stato d’ur- genza eventualmente perpetuo, come in Francia, arrogarsi i pieni poteri, come in Ungheria o prolungare ad nauseam la sua dittatura, come in Russia. Quello che è nuovo, secondo Agamben, è che questa violenza si esercita ormai in nome di una politica ridotta a economia di gestione. Mai, forse, la tesi di Agamben è parsa così vera come oggi. In primo luogo, ormai il potere sovrano sembra disporre di noi costringendoci a una quarantena che priva molti di noi delle relazioni sociali elementari che danno forma alle nostre vite e ai nostri corpi. In secondo luogo, per motivi di economia budgetaria, coloro che tra di noi sono colpiti dal virus vengono portati alla nudità di una vita votata alla morte a causa del fallimento di un sistema sanitario pubblico. Questa economia «uccide», come ha evidenziato papa Francesco. Bisogna ricordarlo, comunque: la pandemia era prevedibile e la quarantena poteva essere evitata. Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Vietnam l’hanno evitata grazie a una politica di tracciamento sistematico che la Germania ha avuto l’intelligenza di imitare, almeno in parte.

Già Caifa lo spiegava: «E’ conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera! » (Gv 11,50). E’ lo stesso calcolo che prefigura gli argomenti di quanti oggi soppesano il numero dei nostri morti di fronte al numero di punti di Pil perduti per mesi di quarantena. Eppure è possibile dare torto ad Agamben, investendo nel nostro sistema ospedaliero pubblico e ricostruendo la fiducia dei cittadini verso le autorità pubbliche e la comunità scientifica. Una popolazione educata, informata in maniera trasparente da un governo che collabora onestamente con la comunità medica, è mille volte più efficace nell’estirpare una pandemia rispetto a tutti i droni di questo mondo. Il semplice gesto di lavarsi le mani con il sapone ha salvato centinaia di milioni di vite dall’inizio del XIX secolo. E una popolazione simile è anche capace di animare una deliberazione democratica. Ma Caifa preferisce l’isteria delle folle che finiscono per gridare: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,16). (Traduzione di Lorenzo Fazzini)

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