Mano pubblica nella ripresa dopo l'emergenza Covid-19
venerdì 3 aprile 2020

Quello che pubblichiamo qui sotto è un estratto dell’articolo di padre Giraud, che si interroga, mentre riorganizziamo la 'resistenza' sanitaria al Covid-19, su come rilanciare un’economia postliberista. La riflessione è contenuta nel quaderno numero 4075 della 'Civiltà Cattolica', in uscita, che contiene anche, tra gli altri, interventi di Giovanni Cucci, Carlo Casalone e Antonio Spadaro, direttore della rivista.

Ciò che stiamo sperimentando, al prezzo della sofferenza inaudita di una parte significativa della popolazione, è il fatto che l’Occidente, dal punto di vista sanitario, non ha strutture e risorse pubbliche adeguate a questa epoca e a questa situazione. Come fare per entrare nel XXI secolo anche dal punto di vista della salute pubblica? È questo che gli occidentali devono capire e mettere in atto, in poche settimane, di fronte a una pandemia che, nel momento in cui scriviamo, promette di imperversare per il Pianeta, a causa delle ricorrenti ondate di contaminazione e delle mutazioni del virus1. Vediamo come e perché. Prevenire eventi come una pandemia non è redditizio a breve termine. Pertanto, non ci siamo premuniti né di mascherine né di test da eseguire massicciamente. E abbiamo ridotto la nostra capacità ospedaliera in nome dell’ideologia dello smantellamento del servizio pubblico, che ora si mostra per quella che è: un’ideologia che uccide. Non avendo mai aderito a tale ideologia, e forti dell’esperienza dell’epidemia di Sars del 2002, Paesi come la Corea del Sud e Taiwan hanno predisposto un sistema di prevenzione estremamente efficace: lo screening sistematico e il tracciamento, puntando alla quarantena e alla collaborazione della popolazione adeguatamente informata e istruita, facendole indossare le mascherine. Nessun confinamento. Il danno economico risulta trascurabile. Invece dello screening sistematico, noi occidentali abbiamo adottato una strategia antica, quella del confinamento, a fronte di una frazione esigua di infetti, e di una parte ancora più piccola tra questi che potrebbe avere gravi complicazioni. Ma, per quanto piccola possa essere, quest’ultima frazione è ancora maggiore dell’attuale capacità di assistenza dei nostri ospedali. Non avendo altre strategie, è chiaro che il non fare nulla equivarrebbe a condannare a morte centinaia di migliaia di cittadini, come mostrano le proiezioni che circolano all’interno della comunità degli epidemiologi.

Il parziale isolamento dell’Europa ha ravvivato l’idea che il capitalismo è sicuramente un sistema molto fragile, e così lo Stato sociale è tornato di moda. In realtà, il difetto nel nostro sistema economico ora rivelato dalla pandemia è purtroppo semplice: se una persona infetta è in grado di infettarne molte altre in pochi giorni e se la malattia ha una mortalità significativa, come nel caso di Covid-19, nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità pubblica forte e adeguata. I lavoratori, anche quelli più in basso nella scala sociale, prima o poi infetteranno i loro vicini, i loro capi, e gli stessi ministri alla fine contrarranno il virus. Impossibile mantenere la finzione antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico che la accompagnano da quarant’anni: l’esternalità negativa indotta dal virus sfida radicalmente l’idea di un sistema complesso modellato sul volontarismo degli imprenditori 'atomizzati'. La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza. E questa pandemia non è affatto l’ultima, la 'grande peste' che non tornerà per un altro secolo, al contrario: il riscaldamento globale promette la moltiplicazione delle pandemie tropicali, come affermano la Banca Mondiale e l’ Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) da anni. E ci saranno altri coronavirus. Senza un efficiente servizio sanitario pubblico, che consenta di selezionare e curare tutti, non esiste più alcun sistema produttivo praticabile durante un’epidemia da coronavirus. E questo per decenni.


Pure ambiente, istruzione, cultura e biodiversità sono beni comuni globali Servono istituzioni per valorizzarli

La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. La deforestazione – così come i mercati della fauna selvatica di Wuhan – ci mette in contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come la 'spagnola' del 1918, l’antrace, ecc. Lo stesso allevamento intensivo facilita la diffusione di epidemie. A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione massiccia alle energie rinnovabili. La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il capitalismo conosce 'il prezzo di tutto e il valore di niente', per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente.

Per privatizzarle, le distruggiamo e roviniamo le nostre società, mentre mettiamo a rischio vite umane. Non siamo monadi isolate, collegate solo da un astratto sistema di prezzi, ma esseri di carne interdipendenti con gli altri e con il territorio. Questo è ciò che dobbiamo imparare nuovamente. La salute di ciascuno riguarda tutti gli altri. Anche per i più privilegiati, la privatizzazione dei sistemi sanitari è un’opzione irrazionale: essi non possono restare totalmente separati dagli altri; la malattia li raggiungerà sempre. La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale. I 'beni comuni', come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia. La salute, ad esempio, deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, con modalità di intervento articolate e stratificate. A livello locale, per esempio, le comunità possono organizzarsi per reagire rapidamente, circoscrivendo i cluster dei contagiati da Covid-19. A livello statale, è necessario un potente servizio ospedaliero pubblico.

A livello internazionale, le raccomandazioni dell’Oms per contrastare una situazione di epidemia devono diventare vincolanti. Pochi Paesi hanno seguito le raccomandazioni dell’Oms prima e durante la crisi. Siamo più disposti ad ascoltare i 'consigli' del Fondo monetario internazionale (Fmi) che quelli dell’Oms. Lo scenario attuale dimostra che abbiamo torto. In questi giorni abbiamo assistito alla nascita di diversi 'beni comuni': come quegli scienziati che, al di fuori di qualsiasi piattaforma pubblica o privata, si sono coordinati spontaneamente attraverso l’iniziativa OpenCovid197, per mettere in comune le informazioni sulle buone pratiche di screening dei virus. Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società. Quello che pubblichiamo qui sotto è un estratto dell’articolo di padre Giraud, che si interroga, mentre riorganizziamo la 'resistenza' sanitaria al Covid-19, su come rilanciare un’economia postliberista. La riflessione è contenuta nel quaderno numero 4075 della 'Civiltà Cattolica', in uscita, che contiene anche, tra gli altri, interventi di Giovanni Cucci, Carlo Casalone e Antonio Spadaro, direttore della rivista. Pure ambiente, istruzione, cultura e biodiversità sono beni comuni globali Servono istituzioni per valorizzarli

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