martedì 10 luglio 2018
Il pauperismo come garanzia di spiritualità è, nell'architettura sacra, uno dei più insidiosi fraintendimenti. Occorre invece che l'edificio corrisponda alla ricchezza multiforme del mistero
L'abbazia di St. Foy a Conques, in Francia

L'abbazia di St. Foy a Conques, in Francia

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Il tema della mistica è tema del sacro. Ne è espansione affine e diretta. La mistica è contemporaneamente una intrinseca proprietà del sacro e pedagogia del suo quotidiano approssimarsi e farsi presenza. Quanto è chiaro cosa sia la mistica è tutto da dimostrare. Spesso è interpretata come stile o comportamento, applicazione di stereotipi e formule utili a gestire il rapporto con il mondo circostante. Quasi sempre nella direzione di creare distanza, consolidare un senso di elezione – anche discriminatorio nei confronti dell’altro. Come se la mistica fosse sinonimo di separazione piuttosto che di profonda unione.
Per la mia conoscenza dell’induismo e delle pratiche a esso correlate, posso dire che la mistica si assomiglia nella metodologia in tutte le religioni, fatte salve le differenze di contenuto.

I padri del deserto hanno metodi in comune con i mistici storici del buddhismo e dell’induismo in particolare. La mistica, come la vera bellezza, ha un sapore aspro e genuino, durissimo e gioioso. Non è mai strumento di divisione, nonostante il necessario distacco progressivo dalle logiche consuete della prassi comune. È interessante come nel suo testo Concentrazione e Meditazione Sri Swami Sivananda Sarasvati, mistico indù vissuto a cavallo dei due secoli scorsi, sostenga che l’asceta deve trascorrere un numero di anni isolato per poi tornare al mondo. Teniamo conto che la cultura in questione non ha lo stesso afflato umanitario che dovrebbe avere il cristianesimo, la stessa attenzione all’uomo – perlomeno non in tutte le sue pratiche. Lo sfondo è il Samadhi, uno stato ipotetico di perfetta contemplazione e liberazione sostanzialmente autoreferenziale, e non la risurrezione della carne. Eppure anche in quel caso la pratica mistica è propedeutica al ritorno nel mondo, a testimoniare la necessità di non trasformare l’esperienza meditativa in uno sterile percorso. Ciò che feconda il cammino mistico è l’incontro rinnovato con l’uomo. Non la divinizzazione e l’accademia dell’ascesi.

Tutto questo è perfetto per una chiesa, per la quale non vale l’approccio che si ha per ogni altro edificio. Uno dei fraintendimenti più insidiosi a questo riguardo è il malinteso pauperismo come segno garante della mistica. Ma mistica è complessità e semplicità insieme, e non vi sono forme privilegiate per veicolarla. Il pauperismo per converso può trasformarsi in una versione, con motivazioni religiose, del minimalismo concettuale, tanto inflazionato quanto in contrasto con il potente fulcro corporeo del cristianesimo.
Un’idea di ascesi prevede l’eliminazione immediata o graduale del superfluo fino a spogliarsi completamente e giungere all’ipotetico nocciolo della questione spirituale. Come se togliendo il superfluo si potesse scoprire lo spirito nascosto dalla superficie. Questo si traduce a livello formale in risultati che hanno forme diversificate e fortune alterne. Se la spoliazione fosse uno degli intendimenti dell’architettura intima dell’uomo e del destino dell’universo, allora non avrebbe senso l’infinità delle variazioni degli esseri viventi, dei sassi, delle fragranze, l’esistenza del piacere oltre che del dolore.
Le forme dell’ascesi possono essere varie, ma certamente non vi è alcuna superiorità pregiudiziale nella semplificazione rispetto all’arricchimento della forma. Il problema è semmai di equilibrio, tensioni interne, modalità e qualità: non di tipologia. Il gotico più ricco di forme e suggestioni ispira una via ascetica che è altrettanto efficace di una piccola austera pieve di campagna, su entrambi sono ispirati e potenti nel loro proprio modo.





La questione è totalmente trasversale a stili ed epoche. Prendiamo l’abbazia di Sainte-Foy a Conques, in Francia. Costruita a cavallo tra il X e XI secolo, è un esempio maestoso delle grandezze del primo romanico. Considerata la sua coerenza stilistica, che contiene un’impronta ineludibile di sobrietà, è evidente come questa risulti dalla complessità degli incroci delle navate, delle percorrenze dei deambulatori, antesignani di quelli futuri. Lo spazio è articolato con sapienza senza rinunciare a una ricchezza formale tanto stupefacente quanto bilanciata. La luce, le tensioni, i percorsi, il materiale, tutto porta naturalmente a un’ispirazione interiore. Si capisce come qui non esista il problema del rendere accettabile alcuna idea di mortificazione. Questa è la casa del mistero e vive di dimensioni che non rispondono alle categorie sociologiche. La struttura, con la sua ricchezza formale, comunica che il fulcro della questione è la contemplazione e non il possesso. La chiave della libertà spirituale dalla prassi.
Testimonia lo stesso principio in modo completamente diverso e, caso unico, proiettato nel futuro anche come processo di realizzazione, l’esempio della Sagrada Familia a Barcellona. Qui la complessità diventa vertigine. La necessità di dare un volto rinnovato al mistero che si proietta nel nuovo universo preconizzato dalla modernità, ha proiettato l’architetto catalano Antoni Gaudí verso un’impresa forse unica: concepire una complessità che cresce su se stessa accompagnando le epoche in un cammino diretto e articolato. L’incredibile coacervo di forme organiche e architettoniche, incastonate su geometrie di estrema complessità, in una delle dimensioni più monumentali di sempre, non testimonia sfarzo o compiacimento estetizzante. È invece prova di un genuino e umile tentativo di glorificare la ricchezza inesauribile di un universo che si fa prossimo all’uomo e lo accompagna, lo conforta, lo ispira. La ragione sta nel fatto che la complessità mirabile della creatura di Gaudì non è artificiosa. A suo modo, in maniera totalmente diversa dall’approccio forse più ideologico di un Leon Battista Alberti, pur potentissimo anche in piccola scala come nel tempietto del Santo Sepolcro a Firenze, Gaudì proietta nella struttura il cosmo, tentandone la perfezione e la intersezione con il corpo stesso del mistero, articolato e unitario, semplice e complesso, povero e infinitamente ricco.

Non vi è alcuna contraddizione tra la Sagrada Familia, così ricca e multiforme, e san Benedetto da Norcia, che evocava una sacralità anche degli arnesi da cucina e per il quale ogni parte del monastero è potenzialmente momento di dignità quasi liturgica. Liturgia della vita quotidiana mai disgiunta da quella del rito. Non interpreto questo come un invito all’impoverimento, a una ascesi punitiva, drenaggio di gioia. Quello di san Benedetto è un elogio alla ricchezza multiforme del mistero nelle nostre vite. Non è il mistero che diventa paiolo o scodella. Sono il paiolo e la scodella a essere segno inequivocabile dell’onnipresente mistero e per questo motivo di arricchimento, di gaudio interiore. Il valore degli strumenti per san Benedetto è lo stesso delle conchiglie e delle forme incredibili e molteplici di Gaudì. Tutte al servizio del mistero, prova esperibile del regalo e del profumo. Ecco la mistica. Quanta ricchezza.
Questa mistica è vicina all’uomo. È contigua, è prossima, ma sarebbe errore fatale pensare che è nota. È altra, è misteriosa, è invito a un cammino che non si può mai conoscere fino in fondo.
Conchiglie e scodelle ci sembrano vicine, ma sono altrettanto lontane e richiedono un percorso per comprenderle. Perché comprenderle implica la trasfigurazione nella carne del mistero che si fa prossimo, ma mai fino al possesso.

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