martedì 24 luglio 2018
La praticità come solo criterio di progettazione rischia di andare a detrimento della qualità e della forza profetica del mistero. Una dimensione che nel passato era perfettamente chiara
La chiesa barocca di San Sebastiano a Palazzolo Acreide, in Sicilia

La chiesa barocca di San Sebastiano a Palazzolo Acreide, in Sicilia

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Nella progettazione delle chiese un punto molto controverso è quello della funzionalità. Nel luogo sacro progettato come simbolo, e non come sala riunioni, la sola funzionalità essenziale è quella di ispirare l’uomo. Non vi è altro scopo. Sappiamo bene che l’incontro tra visione e realtà risulta spesso difficile e sconcertante. Ma ci sono questioni che è urgente riaffermare. Una chiesa non è un luogo in cui il sacerdote esercita un mestiere come in ufficio. Eppure la priorità che hanno ricevuto sicuramente tutti quelli che si sono approcciati alla progettazione di una chiesa e dei suoi luoghi simbolo, è la richiesta che tutto sia funzionale, accessibile con facilità, popolare (anche nel senso deteriore del termine). Ma il mistero è comprensibile? È accessibile? È funzionale? No. Non nei termini in cui si immagina. Il mistero è altro.

Non c’è nulla nel percorso della mistica che sia di buon senso. Il metro di giudizio è un altro. Non voglio dire che una chiesa debba diventare una parete da scalare. Ma non può essere ridotta a una serie di servizi. Eppure nella pratica è ciò che succede. Ciò che interessa alla maggior parte di coloro che sono attori di una chiesa è il comodo svolgimento dell’esercizio piuttosto che la potenza dell’ispirazione. Questo è un problema esiziale. Una chiesa ha il compito di dirti una realtà altra, che ti prepara a un cammino liturgico. Il resto viene dopo. Occorre che le forme e le strutture siano fioritura del mistero, non un centro di fisioterapia. La tranquillità, l’accettabilità non hanno nulla a che fare con il contenuto cristiano. Qui sta il potenziale di rinnovamento presente nella rivelazione cristiana, a cui spesso si rinuncia, con un evidente svuotamento delle chiese intese come luogo capace di trasmettere vita vibrante, energia ispiratrice. Ovviamente non intendo negare la funzionalità.

Voglio fare il punto sulla gerarchia delle funzioni. La prima e fondamentale è ispirare l’incontro con il mistero. E, come per la mistica, questo a volte passa per percorsi non agevoli, che però creano quella tensione interiore da cui sola può nascere l’amore per il mistero e il desiderio dell’incontro. La storia è piena di dimostrazioni meravigliose di come la funzionalità non sia il primo pensiero di chi ha realizzato luoghi sacri potenti. Una delle carenze dei presbiteri contemporanei, ad esempio, è la scarsa visibilità dell’altare. Tra gli elementi per comunicare la sua centralità, l’elevazione gioca un ruolo importante. Ma poi ci si preoccupa di due o tre scalini. Chi ha visto chiese come Santa Maria dei Miracoli di Pietro Lombardo a Venezia si può rendere conto di quanto la scalinata imponente e ripida che porta all’altare crei una tensione molto forte e faccia convergere inevitabilmente lo sguardo verso l’altare. Al di là del risultato formale, distante dai nostri parametri, mi interessa quanto non ci si preoccupasse affatto della praticabilità dei luoghi a favore della loro potenza evocativa e simbolica. Parlando di esterni, scalinate come quella della basilica di San Sebastiano Martire a Palazzolo Acreide, così dura e volumetrica, sono tutt’altro che funzionali e comode, ma certo conferiscono alla facciata una potenza e uno slancio che senza non potrebbe essere. Molti sono gli esempi e tutti profondamente costitutivi della storia stessa delle chiese. Soluzioni come la cupola o la verticalità delle torri gotiche potevano certamente essere sostituite da più funzionali tetti convenzionali.

Ma quale patrimonio di ispirazione, di evocazione che si rivolge a tutto il mondo, non solo quello religioso, avremmo perso? Prendiamo il baldacchino di Bernini a San Pietro. Trenta metri in bronzo sotto la cupola più imponente al mondo non sono esattamente l’idea della funzionalità. Eppure è un capolavoro che apre a dimensioni impossibili da sperimentare senza quella audacia, sprezzante delle questioni della funzionalità e del buon senso. Se togli questo non rimane nulla. Siamo circondati da esempi di perfetto funzionalismo che non ispirano più nessuno, che rischiano di rendere le chiese un territorio morto, vuoto, senza un rinnovamento capace nuovamente di parlare a tutti con una lingua differente. Dove sta la forza profetica, straniante , meravigliosamente diversa che il mistero esercita sull’uomo? Non ha nulla a che fare con il tema dell’agibilità. Ha a che fare con il tema dell’intensità. E se in una chiesa non si trova altro che un centro sociale, la partita è già persa. Più cala di funzione, più il simbolo è potente. Una delle componenti strutturali del simbolo è il distacco dalla funzione pratica in termini propri. La sublimazione del fine meramente funzionale è richiesta alla forma che incarna il significato. Pensando a strutture della modernità che si siano concentrate sulla forza simbolica e non sul mero funzionalismo, va citata la chiesa della Santissima Trinità a Vienna (nota anche come Wotruba Kirche), costruita nel 1976 sul progetto di Fritz Wotruba, con un pensiero artistico molto forte. Uno scultore che progetta un luogo è già un passo che segna il distacco dal primato della logistica. La chiesa sembra una scultura, e questo trasmette un senso molto profondo di unità interna e con tutto l’ambiente circostante. Una pietra che contiene un mistero il quale trasuda attraverso di essa. L’urgenza è chiara. Come non potrebbe non essere. Il linguaggio brutalista acquista in questo caso una luminosità profetica.

Una chiesa è come il nardo versato sul capo del Cristo (Marco 14,3-9). Non riguarda la sopravvivenza fisica. È uno spazio che ha senso se profuma di un altrove che si manifesta. Non ha le priorità di un condominio, un municipio, un cinema, un ospedale. In chiusura un rapido accenno a un’esperienza sulla quale mi ripropongo di tornare. Quella di Otto Bartning, architetto di Karlsruhe vissuto a cavallo tra il XIX e XX secolo. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli venne affidata la ricostruzione di una serie di luoghi di culto. Le cosiddette Notkirchen, le chiese di emergenza. La situazione era chiaramente particolare e Otto elaborò nella Germania bombardata un piano per una ricostruzione industriale seriale che permettesse di ottimizzare i costi, di coinvolgere la popolazione nei cantieri e di dotare di luoghi di culto il maggior numero di comunità. Ne realizzò un’ottantina. In questa esperienza il tema della funzionalità è stato sviscerato a tutto tondo, e certamente quell’emergenza, unica nella storia, poteva giovarsi anche di un approccio di questo tipo. Gli intendimenti, alcune intuizioni come l’identificazione del processo di costruzione con una sorta di liturgia comunitaria, sono sicuramente interessanti. Forse anche alcuni sbocchi estetici, valutati con una coscienza postmoderna. La domanda che mi pongo è se un approccio di questo tipo centra veramente la dimensione antropologica del luogo sacro, che mal si sposa con la serialità, con la meccanica e con l’irregimentazione ideologica, fossero anche a favore della pianificazione di una rinascita dell’istinto religioso.

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