domenica 31 ottobre 2021
«Antiche e nuove fratture, aperte anche dalla pandemia, sfigurano il nostro Paese. È il tempo di fare di fraternità e condivisione le parole d’ordine di una “politica dell’umano”»
Il cardinale Gualtiero Bassetti

Il cardinale Gualtiero Bassetti - Ansa/Cei Cristian Gennari/Siciliani

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Nel 2018 in una delle mie prime prolusioni affermai che bisognava «Ricostruire la speranza, ricucire il Paese, pacificare la società ». Avevo sotto gli occhi le grandi sofferenze dei terremotati del centro Italia, le difficoltà delle tante povertà diffuse del nostro Paese e le divisioni ideologiche provocate dalla crisi dei migranti in Europa che si era sviluppata sin dal 2013. Avevo ben presente, dunque, un Paese dalla “fragile bellezza”, così lo definii in varie occasioni, che aveva in sé le potenzialità e i talenti per crescere ma era caratterizzato da alcune ferite di vecchia data e da altre lacerazioni di nuova fattura. Sembrava insomma che l’Italia indossasse, nonostante tutto, un abito di bella foggia ma che fosse stracciato in alcune sue parti. Da questa constatazione, scaturì l’idea che bisognasse rammendare l’Italia, con tutta la pazienza e l’amore degli uomini e delle donne di buona volontà. Che non servisse tanto una rivoluzione completa del nostro modo di vivere – perché c’è del buono nelle nostre tradizioni e nel nostro popolo – ma che fosse necessaria e urgente un’opera di cura, di “messa in sicurezza”, verso tutti quegli strati della popolazione che stavano soffrendo e che erano sempre più ai margini della comunità nazionale. A mio avviso era fondamentale “ricucire il Paese” dando al popolo una speranza del futuro senza promettere miraggi miracolistici o all’opposto senza soffiare sul fuoco dei conflitti sociali. Io penso che oggi come ieri, anche se le questioni sociali sul tappeto sono mutate, questo atteggiamento sia di fondamentale importanza e assolutamente doveroso. Non si tratta di una politica dei piccoli passi, come si sarebbe detto un tempo, ma è una “politica dell’umano”, una “politica della carità” che parte dalle persone, dalla loro intangibile dignità e li mette in relazione, mettendo al centro di questa relazione non l’egoismo individualistico ma proprio la riconciliazione tra gli italiani. Pochi mesi fa, aprendo i lavori del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, ho ulteriormente sviluppato questo mio pensiero e ho auspicato una “riconciliazione nazionale” – in passato avevo auspicato la creazione di “un nuovo patto sociale” tra gli italiani – per sanare almeno quattro fratture dell’Italia: quella sanitaria, quella sociale, quella legata alle nuove povertà e quella educativa. Oggi al centro delle mie e nostre preoccupazioni c’è un nuovo terremoto: la pandemia da Covid-19. Una pandemia con un duplice significato: sanitario, prima di tutto, ma purtroppo anche economico. Le morti e le tragiche sofferenze dei nostri concittadini si assommano tragicamente con i costi sociali, occupazionali ed economici dell’epidemia. Per questo motivo, mai come oggi serve “una risposta di comunione e corresponsabilità” per guarire le varie ferite che la pandemia ha prodotto e per unire il Paese. Ci sono alcune parole a me molto care che delineano bene il futuro del nostro Paese. Prima di tutto, “riconciliazione fraterna”. Una riconciliazione sui fondamenti del nostro vivere insieme: dalle Alpi a Lampedusa siamo un unico Paese, siamo veramente fratelli e sorelle d’Italia che si riconoscono come tali, non solo in virtù della lingua e del territorio, ma anche in virtù di valori comuni. La fede cattolica, da questo punto di vista, è un bene preziosissimo, non solo perché fonte di un’eredità storica antichissima, ma perché ispiratrice, in tutta la penisola, di una miriade di esperienze religiose diverse: da quelle caritatevoli a quelle più spirituali. In secondo luogo, tra le parole a me più care per uscire da questa crisi pandemica c’è “condivisione”: come nel matrimonio in cui si condividono gioia e dolori, anche la nostra comunità nazionale deve condividere, con “collaborazione e solidarietà”, i momenti più difficili della nostra gente. Occorre uscire dalla pandemia tutti insieme e con l’aiuto reciproco, senza lanciare invettive contro qualcuno, senza cercare capri espiatori della crisi e, soprattutto, senza dimenticare nessuno lungo il cammino della vita. Perché, come scriveva don Primo Mazzolari, la Chiesa è anche “l’ambulanza per chi cade”. Dobbiamo fare nostro, in definitiva, lo sguardo del Samaritano per costruire una società in cui si promuova lo sviluppo integrale della persona in ogni angolo del mondo: non solo all’interno dell’Italia ma anche fuori del nostro Paese. Perché tutto è “interdipendente” come ci ricorda Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. A questo proposito, vorrei ricordare alcune parole che Papa Francesco disse a Napoli in occasione di un incontro sul Mediterraneo, organizzato dalla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, e che hanno accompagnato la Chiesa italiana nell’organizzare il primo incontro dei Vescovi sul Mediterraneo che si è svolto a Bari nel febbraio del 2020 e che continuerà la sua esperienza a Firenze ne febbraio 2022: «Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte – storico, geografico, umano – tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo». Come Chiesa italiana abbiamo cercato di tradurre concretamente queste parole pronunciate da Francesco. Mi piace ricordare, infatti, che tra i frutti del primo incontro di Bari si colloca un’opera-segno che si basa proprio sul tentativo di “avviare processi di riconciliazione” come ha detto il Papa. Abbiamo scelto alcuni giovani provenienti da alcune macroregioni – i Balcani; la penisola Turca; il Medio-Oriente; il Nord Africa – che stanno facendo, per due anni, un percorso di formazione, di “riconciliazione” e di dialogo, grazie a Rondine, un’organizzazione che si impegna per la riduzione dei conflitti armati nel mondo. Questo è solo un esempio, ma che testimonia l’assoluta centralità della riconciliazione come tema, non soltanto spirituale, ma di concreta attualità nel mondo contemporaneo. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, riconoscersi peccatori e lasciarsi redimere dal sacrificio di Cristo non è dunque un esito che rende l’uomo meno umano o la donna meno autonoma. Al contrario, significa realizzare oggi ciò che sin dall’inizio era nel progetto misericordioso del Creatore. Ovvero, riconciliare gli uomini e le donne, ciascuno di noi, con l’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio, là dove non c’è divisione, odio, sospetto, separazione e lontananza.

Bottega di Giovanni Bellini, “Madonna col Bambino tra santi”

Bottega di Giovanni Bellini, “Madonna col Bambino tra santi” - Firenze, Collezione Luzzetti

Verso l'Infinito che sta oltre la siepe

Giovanni Gazzaneo

La bellezza che cerchiamo è la bellezza del per sempre, dell’infinito, dell’eterno. Una bellezza difficile da cogliere, una verità difficile da abbracciare, da abitare e lasciarsi abitare. Sempre, ma ancor più oggi. Perché, come ha affermato papa Francesco, «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza». E i temi del cambiamento, del limite, del relazionarsi tra generazioni alla luce dell’Infinito saranno al centro della Settimana della Bellezza, giunta alla sesta edizione. «Il titolo “L’Infinita bellezza… oltre la siepe” – afferma Giovanni Roncari, vescovo di Grosseto e di Pitigliano, Sovana e Orbetello – può apparire, a un primo sguardo, quasi fuori tema. Nell’anno dantesco puntiamo l’attenzione su un tema che si rifà a Leopardi. In verità, siamo perfettamente nel solco di una riflessione più ampia che la pandemia – con tutti i suoi effetti – ha generato, più o meno inconsapevolmente, in ciascuno: “E ora che succede?” Questa domanda è assimilabile alla “siepe” leopardiana. È un limite, persino un ostacolo ad andare oltre, verso quell’Infinito che ci attende, ci chiama, ci attrae. Per noi cristiani l’Infinita bellezza non è un concetto astratto, né solamente estetico. Ha un volto e un nome: è Cristo. Dante aveva questa consapevolezza di Dio talmente radicata in sé, che quando scrive il Paradiso esplode nell’ultimo canto, riassumendo tutto ciò che di Dio l’uomo immagina e spera. E l’amor che move il sole e l’altre stelle non è forse l’Infinita bellezza di cui l’umanità ha profonda nostalgia?». La contemplazione è il punto di arrivo per l’uomo che cerca, per il mistico, per il poeta e per ogni artista degno di questo nome, è il coraggio di farsi attrarre da chi è più grande di noi, è liberarsi dalla paura del limite per lasciarsi abbracciare dall’Infinito. Sguardo all’insù a rimirar le stelle e piedi stanchi di percorrere lande deserte e inospitali, ma anche terre ricche di meraviglie della natura e del genio dell’uomo. In questa tensione tra cielo e terra, in questa ricerca di cuore e di mente, che non si ferma a formule o concetti ma vuole abbracciare tutto l’uomo così com’è, carne e anima, diventiamo cercatori di luce. Siamo chiamati, oggi, a riscoprire personalmente il dialogo tra Dio e l’uomo, che si declina fin dal suo incipit nell’orizzonte della bellezza. Il Padre crea i cieli e la terra e gli esseri viventi, ma solo di Adamo ed Eva dice facciamoli: “a nostra immagine e somiglianza”. Un dialogo che prima di essere parola è sguardo. Noi siamo il suo riflesso e solo nel suo sguardo possiamo riconoscerci per quel che siamo realmente: non specchio di Dio, ma figli suoi. Modellati nel profondo dell’anima nostra dalla domanda di bene, di vero e di bello che trova piena risposta nell’Altissimo. In questo dialogo tra la nostra sete mai appagata e l’Infinito che ci sostiene si concentra la sacralità della nostra vita, il nostro essere a sua immagine. È un dialogo dove l’orizzonte dello stupore può essere attraversato dalle nuvole del dubbio, dell’angoscia, del tormento senza per questo perdere la sua verità e la sua bellezza… Nulla viene negato, tutto è abbracciato: il canto di Davide, il pianto di Giobbe, il Cristo della Passione, il Crocifisso e il Risorto. La bellezza Cristiana, che è infinita bellezza, esprime tutto questo, tra il limite e l’Oltre.

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