mercoledì 7 gennaio 2009
Dieci anni fa moriva a soli 36 anni uno dei più grandi pianisti del ’900. Figlio di un chitarrista talentuoso decise di suonare fino all’ultimo pur sapendo di essere a un passo dalla fine. Affetto dalla sindrome «delle ossa di cristallo» era alto 90 centimetri. Amava ripetere: «Suono per trasmettere la mia gioia per la vita». Di lui Chirac disse: «È un esempio unico».
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«Un esempio». Jacques Chirac, allora presi­dente della Repub­blica francese, rese omaggio così al pianista suo connazionale Michel Petrucciani, spentosi a trentasei anni appena compiuti dieci anni fa. Pronunciando quelle parole Chirac aveva certo in mente il su­blime talento di un jazzista de­buttante a tredici anni e poi via via richiesto da Kenny Clarke, Lee Ko­nitz, Charles Lloyd, Dizzy Gillespie, Jim Hall, Wayne Shorter, Stanley Clarke, John Scofield, Gerry Mul­ligan, Stéphane Grappelli. Però è probabile che Chirac pensasse pu­re a qualcosa d’altro. Perché Mi­chel Petrucciani ha testimoniato con la propria vicenda terrena che quanto conta in un uomo non è quello che sembra importante, a guardare la rappresentazione che dell’uomo danno le piazze virtua­li della società d’oggi. Riviste, tv, pubblicità: tutti circhi di stereoti­pato atletismo, bellezza patinata, modelli esteriori inaccessibili. Pe­trucciani, lui, sembrava uscito dal­le pagine di Notre Dame de Paris. Affetto dalla sindrome detta «del­le ossa di cristallo», malattia ge­netica che comporta carenze di calcio tali da arrestare la crescita dell’organismo, era alto novanta centimetri, pesava meno di tren­ta chili, era deforme e fragile. Ma dell’handicap aveva fatto la sua forza. «È stato il motore del mio successo – diceva persino –. I miei coetanei giocavano a pallone e io potevo esercitarmi al piano anche sette ore. Del resto non credo di a­vere genio, ho sempre e solo cre­duto nel lavoro». Il padre, chitar­rista, gli aveva approntato una struttura meccanica perché po­tesse raggiungere i pedali del pia­noforte. E chi ha suonato con lui, come il nostro Stefano Cantini, ha ricordato: «Si prendeva in giro sempre. Poi sul palco per i pedali lo aiutava quel marchingegno, ma per la tastiera? Avevi la sensazione che non potesse dominarla tutta. E invece saliva, saliva, si reggeva con la mano sinistra al piano e suonava… La gente temeva ca­desse. Lui? Si divertiva». Già. Per­ché per Petrucciani l’arte era «crea­re allegria, donare emozioni». E di­videre il proprio cachet con i membri del grup­po (avete letto bene). Volle divertirsi, e vivere, fino all’ultimo: anche quando fu chiaro che la malattia non gli avreb­be lasciato scampo. Eb­be una vita speciale, in fondo, proprio perché seppe essere normale. Perché Legion d’Onore e dischi pluripremiati non furono nulla per uno che all’handicap aveva indi­cato riscatto con la sua stessa esi­stenza e che sbugiardò falsi pieti­smi diventando famoso, sposan­dosi, avendo due figli. Per uno che, come disse Flavio Boltro, altro suo collaboratore, «insegnava a sco­prire dentro qualcosa che non sa­pevamo di avere: il coraggio di vi­vere ». Dieci anni dopo Michel Petruc­ciani è ricordato da un’antologia e da un box di dieci magnifici album – fra cui Flamingo con Grappelli, Conversation dal vivo col padre e Piano solo, suo storico concerto tedesco – e due dvd, dei quali uno ( Travels) è un documentario. In cui gioca coi figli, la musica, la vita. E forse vorrebbe essere ricordato so­lo così: scherzoso al limite della goliardia, o al piano a far divertire l’anima della gente. Perché non a­mava parlare di qualcosa che non fosse la musica. Anche se un gior­no disse: «Lo so che sono accetta­to per il mio talento. Ma la mia vi­cenda dimostra altro: quanto la gente non capisca che essere uo­mini non dipende dall’aspetto. È quello che hai dentro a determi­nare il senso della tua vita». Per questo, fu – ed è – "esempio" Mi­chel Petrucciani. Talento immen­so racchiuso in un corpo malato, uomo che parlava poco perché a­veva scelto di vivere.
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