mercoledì 20 marzo 2024
Andrea Guardo cerca di dimostrare che i sistemi morali si siano affermati per selezione naturale e quindi infondati. Ma in modo inatteso sostiene che abbia un senso metterli in pratica nella vita
Una statua che rappresenta la Giustizia

Una statua che rappresenta la Giustizia - Philippe Oursel/Unsplash

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Trattando di un libro che non ha ambizioni di suspence, anche se il finale può sorprendere, possiamo partire con uno spoiler da un classico che lo anticipa di parecchi anni: l’evoluzionismo darwiniano è un “acido universale” che smaschera e dissolve tutte le teorie infondate. Lo sosteneva il filosofo Daniel Dennett in L’idea pericolosa di Darwin. E che sia “pericolosa” lo dimostra quello che Andrea Guardo argomenta per l’intero suo libro: L’evoluzione della morale per selezione naturale (Raffaello Cortina, pagine 224, euro 21,00). Perché la tesi fondamentale è quella dell’antirealismo morale, ovvero in parole più semplici, «i nostri valori morali non sono nient’altro che un riflesso di disposizioni emotive che a loro volta sono il prodotto contingente della selezione naturale e/o culturale».

L’autore, docente di Filosofia teoretica all’Università di Milano, usa a piene mani della sostanza corrosiva di Dennett per mettere in crisi la convinzione che i nostri giudizi etici abbiano almeno auspicabilmente un fondamento oggettivo, qualcosa su cui tutti dovremmo convergere, per esempio che sia sbagliato torturare un bambino. Che, ahinoi, ci siano seviziatori di neonati non contraddice il realismo morale, sia che i colpevoli sappiano di commettere un delitto, sia che siano indifferenti all’etica. Quello che lo dovrebbe mettere fuori gioco è la genealogia delle nostre credenze. Se infatti queste ultime sono il frutto della selezione naturale, dobbiamo considerare che alla selezione importa solo del successo riproduttivo (fitness) di una credenza e la fitness delle nostre credenze morali non dipende dalla loro accuratezza. Traduciamo: nella storia evolutiva sono avvantaggiati gli individui che hanno qualche carattere che permette un migliore adattamento all’ambiente in cui vivono. Chi meglio si adatta evita i maggiori pericoli, predatori in primis, e si riproduce maggiormente. Ma i caratteri più utili sono distribuiti casualmente dalla lotteria genetica che produce individui diversi con differenti capacità di adattarsi alla situazione che capita loro di incontrare. Dopo molte generazioni, si troveranno in prevalenza soltanto gli individui discendenti dei portatori di caratteri più funzionali alla sopravvivenza e alla riproduzione. Le credenze sono un tipo di quei caratteri. Prendiamo la credenza che i serpenti sono animali benefici da tenere nelle abitazioni. I portatori di questa credenza non faranno molta strada. Coloro che invece tendono a utilizzare una strategia detta tit for tat nelle relazioni sociali, cioè collaborare con chi è cooperativo e a chi si comporta da egoista rispondere nello stesso modo, finiranno in gruppi coesi e prosperi, lasciando ampia prole. Nel caso dei serpenti conta la risposta della realtà, quindi le credenze devono essere in un certo senso accurate, ma per la convivenza umana conta solo quello che funziona. Un po’ di interesse individuale e un po’ di altruismo, rifiuto della violenza gratuita, e così via.

La psicologia morale umana che possiamo osservare oggi si è costruita in questo modo – attenzione: in base agli ambienti ancestrali della savana e non ai nostri urbani e ipertecnologici. Poteva tuttavia ragionevolmente evolvere in maniera molto diversa, come possiamo vedere dal mondo animale, in cui i comportamenti verso i propri simili sono i più vari. Per tanto, l’insieme dei nostri valori morali è solo uno tra i valori alternativi che la selezione naturale poteva portarci a ritenere oggettivamente normativi (ci sembrano oggettivi perché sono radicati profondamente in noi come caratteri che ci hanno favorito e hanno soppiantato quelli alternativi venuti in essere per un certo periodo). In più, «le cose che hanno davvero un valore oggettivo in relazione ai nostri rapporti con gli altri sono al più una frazione infinitamente piccola dell’universo delle cose di cui avrebbe potuto importarci». Ne consegue che le nostre credenze morali positive sono quasi sicuramente tutte false e pertanto l’idea che esistano risposte oggettivamente corrette di fronte a scelte morali risulta immotivata.

Nota lo stesso Guardo che il passaggio più controverso di questo debunking argument (argomento critico-distruttivo) è proprio l’evoluzione per selezione naturale delle nostre credenze morali. Per questo motivo egli dedica la gran parte dei suoi sforzi a illustrare i meccanismi della selezione e i raffinati modelli esplicativi che rendono plausibile sostenere che essa abbia plasmato le nostre propensioni al comportamento. Non è tanto il cosa, ma il come che è importante chiarire, perché è facile enunciare un’ipotesi, il difficile è renderla coerente con l’evidenza empirica disponibile. In questo senso, sembra difficile negare che l’evoluzione sia stata all’opera e che abbia un ruolo anche nella nostra cognizione e nelle nostre credenze morali. Il punto è se davvero costituisca l’unico motore delle nostre convinzioni e decisioni. Se il libro fa un buon servizio nell’introdurre a un programma di ricerca che non si può ignorare, lascia il lettore non familiare con la letteratura filosofica e scientifica con alcune domande aperte e dubbi non risolti (per esempio, come si spiega l’indubitabile progresso morale?). Inoltre, il realismo morale forte o ingenuo, destinato a soccombere di fronte alla demolizione evoluzionistica, non è l’unica opzione disponibile per chi non voglia cedere al relativismo di fatto implicato dall’opzione darwiniana.

La sorpresa finale di cui si diceva va proprio in questa direzione: benché siamo consapevoli razionalmente dell’infondatezza dei nostri valori, ha senso rimanere attaccati a essi nella nostra esistenza. Una posizione, quella dell’autore, che può confortare; potrebbe però essere meglio motivata. Altrimenti l’acido continuerà a corrodere lentamente, e non avremo più difese (morali). Come dolorosamente scriveva Primo Levi in I sommersi e i salvati: nel lager «sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti».

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