giovedì 28 marzo 2013
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La grande peste del 1347, con la moria, il terrore, la devastazione che portò con sé, contribuì a segnare il superamento dell’ospedale medievale, in cui spesso i confini tra assistenza e cura, povertà e malattia erano sfumati ed incerti; in cui gli “infirmari”, più che infermieri nel senso moderno del termine, erano persone votate interamente alla carità, senza però particolari conoscenze specialistiche; in cui la figura del medico era spesso marginale; in cui non era chiara la distinzione dei malati per sesso e patologia. Si passò così, a partire dal XV secolo, dall’ospedale della carità all’ospedale della cura: si accentuò l’intervento degli Stati, delle autorità comunali e del laicato, soprattutto nell’amministrazione (fermo restando la presenza negli istituti di religiosi, di confraternite e delle collaborazione ecclesiastica); si profuse maggior attenzione nella cura, nel perseguimento della guarigione, piuttosto che nella generica assistenza; si attuò la separazione tra malati guaribili e inguaribili, tra acuti e cronici (quest’ultimi sistemati in ospedali e ricoveri minori); si attuò una sempre maggior distinzione per sesso e patologia, insieme ad una maggior specializzazione e a una maggior importanza dei medici, molto più presenti in corsia. Se «il luogo della lebbra, il lebbrosario, era più simile al vecchio ospizio», al contrario, scrive Cosmacini, «il luogo della peste, il lazzaretto, era più simile all’ospedale moderno, che di fatto, in certo qual senso, anticipava». La peste fu dunque «un agente non solo destrutturante a più livelli, ma anche mutante in positivo. Era una spada di Damocle incombente che induceva gli Stati, quelli italiani prima degli altri in Europa, a darsi uomini e strutture capaci di farvi fronte». L’Italia si mostrò all’avanguardia: come era sempre stato, essendo il paese di Cassiodoro, dei benedettini, della schola medica di Salerno, dell’Ospedale del Santo Spirito, delle prime università, e poi della chirurgia nel XIII secolo, dell’anatomia, della fisiologia… Bologna, Padova, Roma, furono per secoli, nel campo della medicina, punti di riferimento per l’Europa intera. Un dato, questo, che andrebbe valutato, prima di proporre strane considerazioni su una presunta e congenita “arretratezza del Bel Paese”, dovuta alla presenza della Chiesa cattolica, tanto declamata da Machiavelli e dai suoi seguaci odierni. Come prototipo del nuovo tipo di complesso ospedaliero che si diffonderà d’ora in poi può valere l’Ospedale Maggiore di Milano, riservato ai malati con possibilità di guarigione, a cui ne seguirono, in Italia, molti altri, e alla cui realizzazione contribuirono l’azione dello Stato e della Chiesa. L’Ospedale Maggiore di Milano, noto anche come Ospedale dell’Annunziata o come Ca’ Granda, fu fondato ufficialmente nel 1456 da Francesco Sforza, che volle così adempiere ad un voto alla Madonna Annunziata e nel contempo portare a compimento l’opera di aggregazione di tutti gli ospedali esistenti nel territorio milanese, iniziata già nel 1447 dall’arcivescovo della città, Enrico Rampini, allora noto come il “Padre dei poveri”, col beneplacito del Papa. Il nuovo ospedale, quindi, assorbì compiti e patrimoni delle numerose istituzioni che, annesse a monasteri o gestite da ordini religiosi e confraternite, esistevano a Milano e nel suo territorio almeno dal IX secolo. Naphy e Spicer notano che «nell’anno 1500 l’Europa disponeva di una metodologia consolidata per prevenire e controllare le epidemie di peste, affermatasi attraverso i sistemi sviluppati delle città-Stato dell’Italia settentrionale». Così, «alla fine del periodo preso in esame (circa il 1700) si era soliti affermare, in Europa, che l’Italia era il luogo più rigoroso del mondo, in quanto a salute pubblica, mentre l’Inghilterra era considerato uno degli Stati più arretrati in materia». Del resto, persino Martin Lutero, mai molto tenero con l’Italia cattolica e papalina, dopo il suo viaggio a Roma e a Firenze nel 1511 aveva affermato nei suoi Discorsi conviviali, riguardo agli ospedali in Italia: «Sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti sono pulitissimi, e i letti dipinti. Appena viene portato un malato lo si spoglia di tutte le vesti […] gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto, lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici […]. Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate; servono i poveri e poi tornano a casa […]. L’ho visto a Firenze con quanta cura sono tenuti gli ospedali. Così anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti ed istruiti in modo eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati molto paternamente». Quanto all’Europa del nord, e all’Inghilterra in particolare, uno dei motivi della sua arretratezza rispetto all’Italia, può essere rintracciato in un certo fatalismo calvinista di cui si è già detto (che potrebbe essere una delle cause remote della situazione sanitaria che troviamo anche oggi negli Usa); ma forse occorre soprattutto riferirsi ad un fatto storico ben preciso: la lotta dei sovrani inglesi, anglicani e scismatici, contro la Chiesa cattolica e di conseguenza contro le sue opere di misericordia. Infatti, mentre alla fine del Trecento nell’Inghilterra ancora cattolica «si contavano quasi 500 ospedali», «la soppressione di monasteri e possedimenti ecclesiastici durante il periodo riformistico di Enrico e di Edoardo (1536-53) portò praticamente alla scomparsa di tutte queste istituzioni via via che la corona si impadroniva delle loro tenute e dei loro beni». Così, ad eccezione di Londra, fino al 1700 non vi furono quasi ospedali per i malati. Invece «nei paesi cattolici e nella Germania protestante non si assistette all’esproprio di beni del periodo enriciano, e nella Spagna, Francia e Italia del Rinascimento gli ospedali continuarono a crescere per numero, dimensione, ricchezza e potere.
A Parigi l’Hotel-Dieu era una vasta istituzione sanitaria gestita, sino alla rivoluzione francese, da ordini religiosi». Quanto all’Inghilterra, nel Settecento, per colmare un “vuoto enorme”, «vennero fondati nuovi ospedali per i poveri bisognosi e meritevoli. Corona e Parlamento non rivestirono alcun ruolo: la spinta organizzativa e i fondi provenivano in genere da iniziative caritatevoli di persone benestanti» (R. Porter). Inutile dire che se l’Italia era all’avanguardia in Europa, quest’ultima lo era rispetto al resto del mondo, dal momento che proprio l’istituzione ospedaliera fu il principale motore della crescita della medicina: «In Asia, all’opposto, gli esperti di medicina, che non svolgevano la propria attività nell’ambito degli ospedali, affrontarono l’esperienza delle nuove malattie sviluppatesi in quegli stessi secoli richiamandosi rigorosamente alle antiche autorità» (McNeil).
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