«Oggi è troppo importante essere famosi, quarant’anni fa era decisivo diventare buoni musicisti. Industria e tv condizionano in modo negativo i giovani. Ma dopo che costruendosi un’immagine patinata si è passati davanti alle telecamere, cosa rimane se non si è studiato? » Ian Gillan di successo nel rock ne sa assai. Sono infatti passati quarant’anni esatti dal suo ingresso negli storici Deep Purple, di cui è stato la voce per i dischi migliori, titoli imprescindibili come Machine Head, Fireball, In rock. Ed ancora oggi, dietro un’ineffabile aria da gentiluomo inglese di 64 anni, Gillan è protagonista sulla scena mondiale. Nella band e con i suoi progetti solisti: l’ultimo dei quali, One eye to Morocco, uscirà venerdì prossimo tra rock, blues e soul, con un paio di nuove perle ( It would be nice, Better days). Intanto però l’artista non le manda a dire, alle nuove generazioni che dal passato prendono spesso solo un look da ribelli. « Anche noi volevamo ribellarci: ma sapendo che i cambiamenti nascono da basi solide. Vandalizzando la storia non c’è futuro» .
Gillan, qual è il suo bilancio di quarant’anni di musica? Quanto le ha dato, quanto le ha tolto? «La ringrazio per questa domanda: mi permette di dire che la musica per me è un’amica. Non voglio arrivare alla retorica di affermare che mi ha permesso di superare momenti difficili della vita, però è stata essenziale per viverla. Da sempre, da quando ero corista in chiesa da ragazzo, prima del rock» .
Poi cosa la conquistò del rock? «Fu una scossa. Diede alla mia generazione la consapevolezza di un possibile senso sociale e politico alla musica: noi non conoscevamo bene il blues, era confinato in America, c’era una sorta di apartheid musicale. Il rock certo era più facile, però ci aprì la mente a una musica diversa. Che amavamo capire ed approfondire, non solo suonare. Nei Deep Purple ognuno aveva una formazione vera: swing, jazz, classica… Fare rock così, era come gettare un sasso in uno stagno profondo di conoscenze acquisite. Era arricchimento: spirituale e professionale» .
Le band di oggi non funzionano più così, secondo lei? «Magari la mia età non mi fa capire i giovani, però temo che i valori siano diversi. Noi ci esercitavamo per ore, oggi provano i vestiti. E non vedo futuro in certi atteggiamenti. Le racconto un episodio a mio avviso tremendo: qualche anno fa sentii il disco di un giovane chitarrista. È magnifico, pensai. Bene: lo portai in studio per scoprire che non sapeva la musica, copiava i virtuosismi dei Deep Purple. Ed ovviamente non divenne famoso, anzi. Finì male» .
La sua generazione cosa aveva in più a suo avviso? « Forse solo più ' fame': avevamo bisogno di dire realtà nascoste. Oggi hanno tutto, non c’è purezza. Predicano, puntano su apparenze, coltivano un ego » . Nel nuovo disco lei invece su cosa punta? « Continuo il viaggio che il dono di scrivere musica mi permette di fare. Parlando di Polonia ed Africa, provando vari stili, in fondo cerco me stesso. E vorrei tanto che questo cd parlasse di un’anima » .