domenica 1 marzo 2009
La storica voce dei Deep Purple: «Le nuove generazioni di musicisti appiattite dalla tv e dall’industria Per noi la musica era una scoperta e una ragione di vita, oggi si pensa solo a diventare famosi in fretta»
COMMENTA E CONDIVIDI
«Oggi è troppo importante es­sere famosi, quarant’anni fa era decisivo diventare buoni musicisti. Industria e tv condizionano in modo negativo i giovani. Ma dopo che co­struendosi un’immagine patinata si è pas­sati davanti alle telecamere, cosa rimane se non si è studiato? » Ian Gillan di suc­cesso nel rock ne sa assai. Sono infatti pas­sati quarant’anni esatti dal suo ingresso negli storici Deep Purple, di cui è stato la voce per i dischi migliori, titoli impre­scindibili come Machine Head, Fireball, In rock. Ed ancora oggi, dietro un’ineffa­bile aria da gentiluomo inglese di 64 an­ni, Gillan è protagonista sulla scena mon­diale. Nella band e con i suoi progetti so­listi: l’ultimo dei quali, One eye to Moroc­co, uscirà venerdì prossimo tra rock, blues e soul, con un paio di nuove perle ( It would be nice, Better days). Intanto però l’artista non le manda a dire, alle nuove generazioni che dal passato prendono spesso solo un look da ribelli. « Anche noi volevamo ribellarci: ma sapendo che i cambiamenti nascono da basi solide. Van­dalizzando la storia non c’è futuro» . Gillan, qual è il suo bilancio di qua­rant’anni di musica? Quanto le ha dato, quanto le ha tolto? «La ringrazio per questa domanda: mi permette di dire che la musica per me è un’amica. Non voglio arrivare alla retori­ca di affermare che mi ha permesso di su­perare momenti difficili della vita, però è stata essenziale per viverla. Da sempre, da quando ero corista in chiesa da ragaz­zo, prima del rock» . Poi cosa la conquistò del rock? «Fu una scossa. Diede alla mia genera­zione la consapevolezza di un possibile senso sociale e politico alla musica: noi non conoscevamo bene il blues, era con­finato in America, c’era una sorta di a­partheid musicale. Il rock certo era più facile, però ci aprì la mente a una musi­ca diversa. Che amavamo capire ed ap­profondire, non solo suonare. Nei Deep Purple ognuno aveva una formazione vera: swing, jazz, classica… Fare rock co­sì, era come gettare un sasso in uno sta­gno profondo di conoscenze acquisite. Era arricchimento: spirituale e profes­sionale» . Le band di oggi non funzionano più co­sì, secondo lei? «Magari la mia età non mi fa capire i gio­vani, però temo che i valori siano diversi. Noi ci esercitavamo per ore, oggi provano i vestiti. E non vedo futuro in certi atteg­giamenti. Le racconto un epi­sodio a mio avviso tremendo: qualche anno fa sentii il disco di un giovane chitarrista. È ma­gnifico, pensai. Bene: lo portai in studio per scoprire che non sapeva la musica, copiava i vir­tuosismi dei Deep Purple. Ed ovviamente non divenne fa­moso, anzi. Finì male» . La sua generazione cosa ave­va in più a suo avviso? « Forse solo più ' fame': avevamo bisogno di dire realtà nascoste. Oggi hanno tutto, non c’è purezza. Predicano, puntano su apparenze, coltivano un ego » . Nel nuovo disco lei invece su cosa pun­ta? « Continuo il viaggio che il dono di scrive­re musica mi permette di fare. Parlando di Polonia ed Africa, provando vari stili, in fondo cerco me stesso. E vorrei tanto che questo cd parlasse di un’anima » .
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: