Una natura morta di Fede Galizia: “Alzata in vetro con pesche, gelsomino, mele cotogne e una locusta” (1607 c.) - .
Quando, settimane fa, mi trovavo a Trento per vedere la mostra su Fede Galizia «mirabile pittoressa», inaugurata il 3 luglio scorso (fino al 24 ottobre), ero stato preavvisato dall’ufficio stampa che il catalogo non era ancora disponibile – ma neanche un saggetto introduttivo con le ragioni della mostra da leggersi sia pure in modalità smart? No (la risposta fu perentoria: i curatori stavano finendo di scrivere) –, chinai il capo, lì per lì, con rammarico, ma poi pensai che poteva anche essere un bene: per me, che pure mi sono interessato a Fede Galizia per quelle sue levigate e a volte cotonate nature morte, o silenti, che dir si voglia e ne avevo una conoscenza sommaria dalla monografia di Flavio Caroli del 1989, era l’occasione per vedere la pittrice di origini trentine, ma a lungo milanese insieme al padre Nunzio, con un occhio non dico “vergine” – la società dell’immagine non consente più questi lussi – ma meno preconcetto.
Poi, arrivato in mostra, è stato un vero shock. Non per le opere, che anzi risultavano quasi disperse e frammentate, ma per l’allestimento, impostato su tende ondulate e specchianti che compongono all’interno del Castello del Buonconsiglio ambienti “a capsula” che dovrebbero indurre al raccoglimento «evitando la collisione con le decorazioni ad affresco e a stucco», come scrive il maître dell’esposizione, Giovanni Agosti. Il Castello, infatti, è fagocitante per le tante immagini, ad affresco, in scultura, decorative che contiene. Se il proposito era meritorio, molto meno lo sono le strutture ondulate e a specchio ideate da una allieva della scenografa Margherita Palli che è stata a sua volta discepola di Luca Ronconi, che risponde al nome di Alice De Bortoli. Lei, che si è trovata a dover pelare questa gatta così reattiva e ostica, come risultano le sale del palazzo-castello trentino, non avrà dunque la mia invidia.
Per cui non la farò tanto lunga, mi limiterò a notare che quelle strutture creano parecchio disagio, e già quando il pubblico non dico s’affolla, ma scivola lento e rado, fino in qualche caso a toccarsi i gomiti (voi direte, i gomiti in tempo di Covid sono quelli ammessi come saluto, al posto della stretta di mano, e quindi tutto bene se per una volta accadrà non per precauzione sanitaria ma per ristrettezza di spazi; ciò detto, sarebbe stato meglio che i gomiti rimanessero liberi e distanti almeno in queste occasioni). Ho iniziato parlando del catalogo che non era ancora pronto, in agosto, quando ho visto la mostra («a fine mese... a fine mese...»).
“Giuditta con la testa di Oloferne e la serva Abra” (1596) di Fede Galizia - Sarasota, The Ringling Museum of Art
Uscendo dalla mostra con alcune informazioni tratte dalle bacheche d’allestimento, mi sono accontentato di una idea un po’ più specifica quale può farsi un comune visitatore che conosca appena Fede Galizia pittrice di nature morte, o silenti, che dir si voglia. Poi, a metà settembre il catalogo mi è stato gentilmente consegnato. E qui sono cominciati i dolori. Non perché il volume sia inattendibile o presenti degli errori, anzi è di una precisione maniacale (mi viene in mente quella battuta: «non si vedono più gobbi», a cui si può rispondere: merito della scienza; oppure del controllo delle nascite). E la mostra di Trento è l’occasione di uno sfoggio di scienza persino ossessiva, adatta certo più per un libro rivolto agli studiosi che per un catalogo.
Siamo in pieno solluchero da parte di un’agguerrita squadra che ha deciso di prendere il toro per le corna – e qui, scusandomi per la metafora poco gender (pare molto cara ad Agosti) –, preciso che essa rimanda a una delle cose più rilevanti di questa “operazione” espositiva, cioè il peso che viene dato al padre di Fede, Nunzio Galizia, che arrivò a Milano, città sotto dominio spagnolo, da Trento con la famiglia che era di origini cremonesi. Nunzio fu artista e un poliedrico creativo, si definiva miniatore, costumista, lavorò per il teatro, insomma, quasi un designer, per quanto radicato in un “artigianato” di genio.
Ma voglio soffermarmi su questa moda, ormai diffusa, di organizzare mostre per finanziare libri che nascono come monografie in forma di catalogo. In tempi dove le vacche sono magre e vieppiù nere, lo si può capire, ma la moda è disdicevole non tanto per i risultati, talvolta encomiabili, ma per la perdita quasi totale dell’idea di mostra pensata e realizzata per accrescere la consapevolezza, in passato di un popolo, oggi di una società. Poiché da quasi un secolo le faide fra congreghe della storia dell’arte non si risparmiano colpi bassi, è bene dire che a Trento rientriamo in una compagnia che sulla porta ha stampato il motto «Non possiamo non dirci longhiani », ma è allo stesso tempo animata dalla volontà non tanto di uccidere il padre, e magari il fratello, ma di liberarsi della loro ombra, come già nella mostra agostiana dedicata a Gaudenzio, dove si dichiarava appunto di volersi muovere oltre Longhi e Testori. Ma questa compagnia ha sempre i suoi soliti nemici, e Agosti non si sottrae nemmeno ora.
Il ritratto di Federico Zuccari dipinto da Fede Galizia (1604) - Firenze, Galleria degli Uffizi
Poco male. Eppure, quando rileggo l’introduzione di Longhi alla mostra caravaggesca del 1951, una dozzina di paginette, mi dico che in così poco spazio erano presenti alcune formule critiche che ancora dettano riflessioni, magari dissensi, ma sufficienti a far pensare l’uomo della strada, o comune, che dir si voglia. Oggi le mostre si fanno dunque per sfornare monografie dove vincono lo specialismo e Madama Filologia, ma tutto questo non ha più alcuna valenza “popolare”. Proprio le pagine e le schede su Nunzio e dintorni quale “centro” propulsivo del discorso, potranno anche evocare un celebre saggio longhiano su Orazio e Artemisia Gentileschi secondo la formula parafrasata in Galizia padre e figlia, ma il risultato è debordante. E anche la mostra, a mio parere, ne soffre. Tanto che lette le introduzioni di Agosti, saggi e schede di Jacopo Stoppa, Agostino Allegri, Federico Giani, Giovanni Renzi, e soverchiato da tanta scienza, torno alle impressioni raccolte durante la visita, dove, a essere onesto, Fede Galizia a volte mi ha convinto e altre meno, e proprio sulla resa pittorica; e ho malignato sulla moda, cui ho dedicato recentemente un articolo, di enfatizzare, per fini di marketing, tutto ciò che è “femminile” nell’arte (ma qui forse anche Agosti è d’accordo).
Però alla fine mi sono detto: ma se più o meno all’epoca veniva già ricordata come «mirabile pittoressa» di nature morte, una ragione ci sarà, e forse va pensata su quelle opere che la resero celebre nel suo tempo, tanto più che, come viene detto, la prima opera sua del genere oggi nota viene datata al 1602, mentre la Canestra del Caravaggio arriva a Milano qualche anno dopo. Allora sarebbe stato utile, credo, coinvolgere uno specialista caravaggesco – Giacomo Berra? – per ricordarci il quadro generale su cosa successe a Milano dopo il 1587, quando i Galizia approdano in città e Caravaggio stava già forgiando le sue armi, non sappiamo ancora bene dove e come, a parte Peterzano e una quantità di induzioni documentarie.
Se prendiamo la Canestra , che probabilmente risale agli ultimi anni del XVI secolo, e la confrontiamo con la natura morta di Fede Alzata metallica con pesche, foglie di melo, bocca di leone ecc. datata 1602, o con la splendida Crespina di ceramica con uva, due nespole, due mele cotogne ecc., assai più definita e collocata tra 1602-1607, è chiaramente percepibile un dislivello che non è soltanto pittorico. Ammiriamo la bellezza delle due tavole galiziane, forse percepiamo anche il loro conio femmineo, ma se avessimo di fianco la Canestra di Caravaggio capiremmo al volo che si tratta di due diversissime forme di realismo e di metafisica. Fede sta eseguendo qualcosa che rientra in schemi simbolici che potevano anche stare bene sul versante “religioso” maturato dal Concilio di Trento e dal trattato paleottiano. Caravaggio dipinge qualcos’altro. Tanta fatica si fa a dipingere un ritratto quanto un quadro di nature morte, giusto, ma ciò che si fa non ha la medesima funzione, e quella natura morta forse ha in sé un principio di dissimulazione, tanto che si potrebbe pensare che alla soglia del Giubileo del 1600, Caravaggio, realizzando frutti bacati e foglie accartocciate e appassite, esegue un quadro di realtà, certo, ma ha anche accolto la consulenza di qualcuno che forse gli insinuò l’idea di farne uno specchio “traslato” della Chiesa dell’epoca – con i suoi intrighi fra fazioni francesi e spagnole o altre ancora –, ma come metafora transtorica della Casta meretrixdi memoria ambrosiana. Qui allora, il silenzio parla, eccome se parla, e sullo sfondo ha una luce dorata.
La mostra apre scenari di ricerca molteplici, rigurgita di associazioni documentarie, di chiarimenti, di scoperte; e prima delle nature morte, la tappa più rilevante resta la “capsula” con le varie versioni di Giuditta e Oloferne, che Jacopo Stoppa separa giustamente dalla visione “turpe e violenta” della triade Cerano-Morazzone-Procaccini. Emerge il gusto sartoriale con cui Fede dipinge ogni versione, quattro precisamente, aggiungendo o togliendo dettagli dentro uno schema che si ripete senza grande coinvolgimento emotivo, quasi una nemesi femminista si può dire, dove «l’opzione stilistica scelta da Fede è abbastanza neutra ». Guardando queste Giuditte sia ha l’impressione di trovarsi di fronte a una eroica “bambolona”, una sorta di manichino a cui sia stato fatto indossare un abito e gli accessori, come in un atelier teatrale, di cui del resto Nunzio e Fede avevano contezza.
Finirò narrando una scenetta avvenuta in mostra: chiusi io, una custode del museo e due ragazzi, forse fidanzati, nella “capsula” delle Giuditte, mi sono trovato ad assistere al gioco della guardiana che, rivolgendosi ai due, li ha provocati: «Adesso se guardate bene i quadri, vedrete che ci sono piccole differenze. Provate a scoprire che cosa cambia tra un dipinto e l’altro». Ho osservato con divertito stupore e poi ho pensato, fra me e me: la custode dev’essere una eletta della Confraternita Agosti. Se vi sembra uno scherzo, non lo si è fatto apposta.