martedì 1 dicembre 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
Al Salon di Parigi del 1824 John Constable espose tre paesaggi che gli meritarono in un sol colpo la medaglia d’oro da parte della giuria e il riconoscimento di «padre della scuola francese di paesaggio» (parola di Delacroix); un «padre» che peraltro aveva messo a punto la sua pittura, oltre che sugli olandesi e sui maestri di casa sua, sui Lorrain, sui Poussin, sui Gaspard Dughet… Achille Michallon, giovane promessa del paesaggismo francese, "Grand Prix de Rome" nel 1817, ne fu conquistato: il maestro inglese pareva dipingere quei paesaggi atmosferici (ed egli stesso dichiarava che quello era il segreto della sua «verità») come se non avesse mai visto un quadro prima d’allora. Che cosa imparasse il giovane Camille Corot nella manciata di mesi in cui frequentò lo studio di Michallon (suo coetaneo, questi morì a trent’anni nel ’26) è molto semplice: la dottrina neoclassica del paesaggio, che nel 1822, quando Corot cominciava a lavorare (e poi quando seguiterà l’apprendistato nello studio di Bertin), era all’apice; ma certo è difficile non cogliere l’eco delle parole di Constable in quella pratica dell’«ingenuità» (oggi diremmo visione non culturalmente mediata) di cui molto si è detto e fantasticato a proposito di Corot.Si affacciava dunque sulla scena del paesaggio un elemento soggettivo che, se non ne metteva in crisi il primato, certamente iniettava nella componente storico-letteraria di tradizione neoclassica quell’elemento nuovo dell’«impressione» del vero che avrebbe avuto in Francia il luminoso futuro che sappiamo. Però di lì a sostenere il teorema che ha voluto fare del maestro di Ville-d’Avray una specie di rabdomantico precursore, fuori dal suo tempo, della rivoluzione impressionista - non dimentichiamo che il 900 è stato teatro di una moda «impressionistacentrica» dove pareva inimmaginabile e persino di cattivo gusto ipotizzare che un pittore dell’Ottocento francese capace di dipingere come Corot dipinge, sfiorando un miracolo di trasparenza, d’aria e di luce, non dovesse avere in qualche modo a che fare con Monet e compagni - ce ne passava; era perciò necessario far quadrare il bilancio. E allora, anziché dire più semplicemente che furono quelli dell’Impressionismo (e molti altri dopo di loro) a dover fare i conti col genio di Corot, s’intraprese il cammino contrario, un po’ stravagante: si disse cioè che già al rientro a Parigi dopo il primo soggiorno in Italia, cioè dopo il 1828, Corot portò con sé una gran quantità di paesaggi e vedute di straordinaria freschezza assolutamente eretici rispetto al gusto neoclassico, ma si guardò bene dal proporli al Salon, dove trovò più conveniente inviare paesaggi classicheggianti, instaurando così una specie di doppio registro: quello intimo e innovativo che avrebbe custodito entro le mura dello studio (anche se è noto che, quantomeno a partire dagli anni trascorsi a dipingere nella foresta di Fontainebleau, Corot ha sempre considerato gli studi dipinti en plein air come opere autonome, ed è precisamente quella «autonomia» che ha tratto in inganno), e quello ufficiale, di tradizione, naturalmente più debole e impacciato. Lo spazio ci impedisce di dilungarci sulla vicenda; ricordiamo en passant che persino Lionello Venturi, paragonando le due versioni del Ponte di Narni dipinte da Corot, quella eseguita dal vero durante il primo viaggio in Italia e quella rielaborata in studio per il Salon del ’27, vide nella prima un salto, con cinquant’anni di anticipo e «da solo, senza programma, nel modo più naturale possibile», nel gusto impressionistico; nella seconda un ritorno all’ordine, un’espressione fedele ai princìpi neoclassici in cui era stato allevato.Come spesso accade, la verità sta nel mezzo, e ne dà prova questa mostra per la gran parte targata Louvre (molte opere esposte vengono di lì, e la qualità è superba) e curata da Vincent Pomarède - oggi tra i migliori conoscitori di Corot e dell’Ottocento francese -, che accosta un cospicuo numero di capolavori di Corot a opere dei suoi padri (da Guardi a Poussin, da Annibale Carracci a Claude Lorrain) e nipoti, da Monet a Cézanne fino a Matisse, Mondrian, Picasso. (Mostra in tutto esemplare, anche se le opere in qualche caso sgomitano per l’eccessivo affollamento; ma è un peccato veniale, come quello di accostare il delicato Corot a un chiassoso Derain, che messi vicino fanno una coppia tipo la farfalla e il cinghiale. Infine il catalogo, edito da Marsilio, offre contributi storico-critici eccellenti, ma nella parte iconografica conferma quanto la pittura di Corot sia irriproducibile). La verità è che Corot, pittore realista, fedele fino in fondo allo spirito della nuova generazione romantica, ha in tutta la sua opera difeso il primato dell’espressione del sentimento: «Il bello dell’arte è la verità intrisa dell’impressione che abbiamo ricevuto al cospetto della natura». Fu questo semmai a portare all’estremo quel suo bisogno di cancellare le tracce di ogni mediazione che in quel momento non era più solamente culturale: l’obiettivo fotografico, che da poco si affacciava sulla scena del mondo, saldava infatti in sé in modo nuovo i due elementi «canonici» della composizione di paesaggio, l’osservazione diretta e incontaminata e la «reminiscenza», che nell’occhio meccanico scatta però in modo asettico nell’istante stesso in cui l’immagine si costituisce (anche la rarefazione e una certa qualità astratta della superficie pittorica sono tecnicamente prossime alle prime fotografie di paesaggio, che Corot, come quelli della cosiddetta scuola di Barbizon, ben conosceva e collezionava, e il cui processo imitava con la tecnica del cliché-verre), mentre è nel «souvenir» dell’artista che l’immagine s’imprime in una sedimentazione non meccanicamente visiva, ma emozionale. E di lì all’arte moderna, si capisce, il passo apparve brevissimo.

Verona, Palazzo della Gran GuardiaCorot e l’arte modernaSouvenirs et ImpressionsFino al 7 marzo 2010

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: