martedì 20 gennaio 2009
Il direttore fondatore: «Sappiamo di non poter fermare la guerra, ma non rinunciamo a dare un esempio positivo di fratellanza».
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Dopo Ramallah, dove nel 2005, tra mille difficoltà, ha suonato Mo­zart e Beethoven all’ombra del muro con i ragazzi della West Eastern Di­van orchestra, il desiderio – che lui defi­nisce «una necessità» – di Daniel Baren­boim è di «suonare a Gaza» tra le ferite dell’ennesimo sanguinoso conflitto me­diorientale. «Fosse per me – racconta il direttore d’orchestra che nel 1999 ha fon­dato con il compianto intellettuale pa­lestinese Edward Said la formazione che vede suonare fianco a fianco musicisti i­sraeliani e palestinesi – partirei subito con i ragazzi per andare a fare musica nella Striscia di Gaza». Invece Barenboim – argentino di nascita, ma israeliano di origine – per ora si deve accontentare di fare musica lontano dal Medioriente, a Berlino, Mosca, Vienna, Milano dove è in tournée per ricordare i dieci anni della Divan. «A causa della guerra abbiamo dovuto annullare i concerti a Doha in Qatar e al Cairo: con l’Egitto stiamo già trattando per una nuova data e, sono si­curo, presto riusciremo ad andare an­che a Gaza a portare il nostro messag­gio». Scusi, maestro Barenboim, perché la musica dovrebbe riuscire dove la di­plomazia spesso ha fallito? «Non pretendiamo certo di risolvere que­sto conflitto con la nostra musica, ma siamo convinti che il nostro progetto, che non è politico, ma umano, possa es­sere un modello per il dialogo: suonan­do fianco a fianco israeliani e palestine­si imparano a conoscere l’altro, a capire la logica delle sue argomentazioni. Così la nostra diventa una sfida all’ignoranza – intesa, appunto, come non conoscen­za – che è profondamente radicata in en­trambe le parti». Allora la Divan orchestra è un’isola feli­ce. «Per nulla perché non abbiamo voluto a­bolire le differenze, ma incentivare il con­fronto: i ragazzi discutono animata­mente, difendono le loro posizioni. È sempre accaduto durante le nostre tournée. È avvenuto con maggior forza in queste settimane: al di là delle diffe­renze, al di là delle convinzioni perso­nali tutti ci siamo trovati d’accordo sul non capire la logica di questa guerra. E di fronte a questo abbiamo avvertito an­cora più forte il bisogno di fare musica insieme». Dedicarsi all’arte mentre la gente muo­re non è un fuggire da una realtà che, forse, richiederebbe un impegno diver­so che salire su un podio per fare musi­ca? «Molti ci hanno accusati di essere troppo ingenui. Io ritengo, invece, che sia inge­nuo pensare ancora, dopo così tanti morti, che si possa risolvere questo con­flitto con la violenza». E lei, che ha sia la cittadinanza israelia­na che quella palestinese, che idea si è fatto? «Il conflitto non si può risolvere né con un cessate il fuco unilaterale né con una tre­gua a tempo perché questo crea solo un periodo di vuoto nel quale si prepara lo scontro successivo. Mi chiedo: è davve­ro possibile mettere fuori combatti­mento Hamas? E una volta distrutta l’or­ganizzazione terroristica volete che non nasca un nuovo gruppo fondamentali­sta che rischia di essere ancora più vio­lento del precedente? Sono convinto che oggi ci sia solo una carta da giocare, quel­la dell’accettazione dell’altro, quella di riconoscere la necessità di vivere insie­me. Con i ragazzi dell’orchestra ci ab­biamo provato. E pare funzioni.
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