giovedì 30 giugno 2016
L’eredità di Dolly: la clonazione non serve
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Ricordare l’anniversario della nascita di una pecora potrebbe sembrare a dir poco surreale, se non fosse dell’ovino più famoso del mondo: Dolly, il primo clone di mammifero venuto alla luce il 5 luglio 1996. Non era la prima clonazione di mammiferi in assoluto, ma la prima in cui si utilizzava una cellula di un donatore adulto: una rivoluzione per la biologia. Era la dimostrazione che la differenziazione di una cellula somatica prelevata da un adulto poteva essere resa reversibile. In altre parole: anche per le cellule di un mammifero adulto c’era il modo di "ringiovanire" fino allo stato embrionale, passando attraverso la formazione di un embrione con il patrimonio genetico del donatore della cellula. La tecnica era quella del trasferimento nucleare: a un gamete femminile – un ovocita – si toglie il nucleo e lo si sostituisce con quello di una cellula somatica. L’ovocita così modificato ha le caratteristiche di uno zigote, cioè un embrione a una cellula, e opportunamente stimolato inizia a dividersi e svilupparsi analogamente a un embrione. L’obiettivo era estrarne cellule staminali per farne linee cellulari da far differenziare nelle diverse cellule e tessuti del corpo umano: neuroni, tessuto cardiaco, osseo, e via dicendo. Cellule e tessuti ottenuti dalla distruzione di embrioni clonati, per rimpiazzare cellule e tessuti irreparabilmente degenerati a seguito di patologie incurabili, e senza problemi di compatibilità con i pazienti, perché con questa metodica il Dna delle nuove cellule era lo stesso del malato che aveva messo a disposizione le cellule somatiche.Per la medesima tecnica si usavano due espressioni diverse: "clonazione terapeutica" e "clonazione riproduttiva". Nel primo caso si volevano ottenere cellule per curare, mentre nel secondo l’embrione formato sarebbe stato trasferito in utero per avere un bambino con lo stesso patrimonio genetico del donatore della cellula. La discussione principale riguardava la prima applicazione: se fosse lecito creare embrioni per poi distruggerli, per ipotetiche cure future. Sulla seconda i dubbi erano molto più profondi e diffusi anche se era evidente che, una volta perfezionata la clonazione per la cura, nessuno sarebbe stato stato in grado di fermare tutto e sbarrare la porta a quella per riprodursi. A vent’anni di distanza tutto è cambiato, e di clonazione non si parla più. Nonostante il gran battage che se ne è fatto, la tecnica utilizzata per far nascere la pecora Dolly si è presto dimostrata fallimentare. La percentuale degli animali clonati che riusciva ad arrivare a termine si è fermata all’1-2%, con un’incidenza altissima di mortalità neonatale e di aborti spontanei: «Bisognerebbe sorprendersi di come sia possibile che ogni tanto nasca un animale clonato», scriveva dieci anni fa Lino Loi, noto per aver clonato in Italia il primo muflone. Nonostante gli evidenti limiti mostrati dalla nascita e dalle precarie condizioni di salute della pecora Dolly, che dovevano piuttosto invitare alla prudenza, si crearono enormi aspettative, alimentate irresponsabilmente anche da circoli di ambienti accademici e intellettuali: letteralmente fiumi di denaro sono stati investiti in tutto il mondo in questo ambito, e la spinta verso la tecnica che clonava embrioni per distruggerli era così forte da creare le condizioni per quella che è stata definita la più grande frode scientifica del secolo: nel maggio del 2005 il veterinario coreano Wang Woo Suk firmò un articolo sulla prestigiosa rivista scientifica Science in cui dichiarava di aver prodotto 11 linee cellulari embrionali umane clonate da malati di diverse patologie (diabete, immunodeficienza, etc.). Pochi mesi dopo fu scoperta la truffa: i risultati erano stati falsificati e nessuna clonazione era avvenuta. Inoltre gli ovociti utilizzati per l’esperimento non erano stati 185, generosamente donati da pasionarie della ricerca scientifica, come dichiarato, ma più di 2.000, pagati e talvolta letteralmente estorti anche a collaboratrici dello stesso Wang. Lo stesso "padre" di Dolly, lo scienziato Ian Wilmut, ha abbandonato da tempo questa tecnica per seguire la più efficace e promettente procedura inventata dal medico giapponese Shinya Yamanaka che già nel 2006 – in un suo lavoro sugli embrioni, sì, ma di topo – aveva dimostrato che era possibile far "ringiovanire" le cellule somatiche mediante una manipolazione genetica, portandole a uno stadio analogo a quello embrionale, senza creare embrioni. Erano le Ips, le staminali pluripotenti indotte, una scoperta che gli ha fatto vincere il Nobel per la Medicina nel 2012, in un tempo record. Eppure il mito della clonazione, tanto generosamente alimentato, ha resistito a lungo. Per esempio, nel novembre 2007, proprio mentre Wilmut annunciava al mondo la decisione di seguire la strada giapponese, la rivista Nature vantava il "successo" della clonazione di macachi: quindicimila ovociti utilizzati in tutto, con 304 in grado di produrre ben due (!) linee staminali embrionali, di cui una con anomalie cromosomiche. La stessa rivista a lungo ha cercato di rilanciare la tecnica, nonostante l’evidente fiasco planetario.Un altro tentativo disperato di tenerla in vita è stato quello che voleva creare embrioni ibridi uomo-animale: il fallimento della "clonazione terapeutica" veniva spiegato con la cronica mancanza di ovociti, e con la totale indisponibilità delle donne a "donare" le proprie cellule riproduttive alla ricerca, anche quando ben pagate. Per avere ovociti a sufficienza fu proposto di utilizzare la stessa procedura ma con gameti animali: mucche, per esempio. Furono lanciate campagne mediatiche internazionali a sostegno di questa metodica che avrebbe curato malattie impossibili, rompendo l’ultimo tabù. Ma nessun finanziatore si fece avanti: non c’erano i presupposti scientifici perché funzionasse. Tutto si fermò, e alcuni proponenti cambiarono addirittura mestiere. Anche in Italia non mancarono sostenitori entusiasti, addirittura il ginecologo Antinori rivendicò di aver clonato bambini, senza purtroppo suscitare le risate omeriche che avrebbe meritato.
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