giovedì 7 maggio 2020
Un teologo protestante, firma del giornale cristiano olandese Nederlands Dagblad (in network con Avvenire), spiega cosa può significare per i Paesi Bassi la moratoria in corso sulla morte a richiesta.
"Nella mia Olanda la domanda di vita può piegare l'eutanasia"
COMMENTA E CONDIVIDI

Già poco dopo l’inizio del lockdown dall’Expertisecentrum Euthanasie, il Centro Specialistico per l’Eutanasia che ha sede all’Aia, (l’ex Levenseindekliniek, la Clinica del fine vita), hanno comunicato che avrebbero temporaneamente sospeso le pratiche di eutanasia. Alcuni iter già avviati sarebbero stati portati a termine, in particolare i casi di pazienti terminali o di persone che a breve perderanno la capacità di intendere; tutti gli altri dovranno attendere per un tempo indeterminato. Motivo: gli operatori sanitari dell’Expertisecentrum devono essere impiegati nella cura dei pazienti di coronavirus. Inoltre il Centro considera troppo alto il rischio di contagio per i propri medici. Molti camici bianchi dell’Expertisecentrum, infatti, sono medici in pensione e quindi, a causa della loro età, rientrano in una categoria più vulnerabile. Come altri settori della società, anche l’Expertisecentrum è impegnato in questo momento nella ripresa graduale dell’attività ordinaria. A causa dell’attuale ridotto impiego di personale, il Centro non accetta nuovi pazienti e si concentra su quegli assistiti, circa 200, a cui prima della metà di marzo era già stata prospettata una prima visita.

Per quello che mi risulta, la decisione dell’Expertisecentrum non ha sollevato alcuna discussione. Questo non è poco, se si pensa che per molti l’eutanasia rappresenta un’ultima e molto efficiente soluzione a una sofferenza estrema. Ed è per questo che una frase nel comunicato stampa di metà marzo continua a risuonarmi in testa: «Per quanto questo sia spiacevole – scrivono – l’assistenza all’eutanasia non ha la massima priorità nell’ambito del sistema sanitario». Infatti in questo momento la massima priorità sociale è limitare i danni causati dal virus. Ma ciò non significa che altri tipi di assistenza sanitaria vengano del tutto sospesi: infatti circa 400 posti di terapia intensiva sono comunque tenuti liberi per pazienti non Covid; i pazienti con forme aggressive di cancro sono stati sempre seguiti nelle settimane di lockdown e i pazienti terminali continuano a ricevere cure palliative. In effetti, immaginatevi se nelle case di cura ora dicessero: per prevenire il contagio, e per salvare vite, nei prossimi mesi non somministreremo più la morfina o non forniremo i letti antidecubito o la sedazione palliativa. Sarebbe un insulto.

Ma cure palliative ed eutanasia non sono forse entrambe considerate una soluzione per terminare una grande sofferenza o per prevenirla? Se quindi hanno continuato a somministrare cure palliative, perché non hanno fatto lo stesso con l’eutanasia? Perché non hanno acquistato indumenti protettivi e non hanno fatto somministrare l’eutanasia a colleghi più giovani? La sofferenza che spinge una persona a chiedere l’eutanasia non si ferma certo di fronte al coronavirus. O forse sì?

Il fatto che abbiano sospeso l’eutanasia la dice implicitamente lunga sulla presunta necessità della “dolce morte”. E per fortuna, aggiungo io. Evidentemente, nei momenti di emergenza salvare vite torna a essere nuovamente la priorità rispetto al terminare vite. In Olanda ci siamo messi tutti in “assetto da sopravvivenza” e ciò giustifica ai nostri occhi addirittura la perdita (temporanea) di centinaia di migliaia di posti di lavoro. C’è un silenzio assordante anche riguardo alla annunciata legge sulla morte per “vita completata”. Perché mentre negli ultimi anni ci si lamentava sempre di più che la morte non arrivasse mai, ora è diventato chiaro quanto siano vulnerabili “la vita e la salute”. Sono impressionanti le testimonianze di anziani molto in là negli anni che sprizzano voglia di vivere da tutti i pori e che sono riusciti, con tutte le energie che avevano in corpo, a sconfiggere il Covid 19. Forse – dato che è ancora troppo presto per esprimersi in modo definitivo in merito – questa pandemia ci farà nuovamente considerare la vita come un dono e non come un compito.

Il fatto che l’Expertisecentrum si sia messo in pausa per mesi ha come conseguenza che centinaia di persone, che in altre circostanze avrebbero fatto ricorso all’eutanasia, oggi siano ancora vive.

A me sta a cuore – e lo stesso dice di sé anche l’Expertisecentrum – la sorte di questi pazienti in attesa di eutanasia la cui richiesta è stata respinta. Proviamo allora a rendere la loro vita più sostenibile tramite la cura, l’attenzione e l’aiuto pratico, nella speranza che si riaccenda in loro la voglia di vivere. Nella speranza che qualcuno di questi possa essere felice, perché il coronavirus gli ha salvato la vita.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI