sabato 17 novembre 2007
La gioia che dà il mondo è vanità. La aspettiamo con grande desiderio, ma quando arriva, non riusciamo a trattenerla. La tristezza di chi soffre ingiustamente è meglio della gioia di chi ha commesso iniquità.
Un'antologia medievale di testi assegna queste parole a s. Agostino, anche se non sono reperibili direttamente nelle opere del celebre vescovo di Ippona a noi giunte. Il filo conduttore è quello della gioia e tre sono quasi i nodi sui quali ci si ferma per una riflessione. Il primo riguarda l'inconsistenza di una felicità troppo facilmente promessa attraverso il successo, il piacere, il benessere. È la gioia mondana che si basa sulle cose. Il famoso poeta inglese George G. Byron diceva: «Non c'è gioia che il mondo possa dare eguale a quella che nega». Detto in altri termini, è più forte la delusione rispetto all'illusione.
Ed eccoci subito al secondo nodo del filo della felicità. Essa è come una meteora: appena l'hai afferrata, subito ti sfugge di mano. Anzi, quanto più la tieni stretta, tanto più ti scivola via, quasi come un'anguilla troppo premuta. È una sorta di prova del nostro limite, tant'è vero che la gioia, per essere perfetta, dovrebbe essere infinita e quindi superarci. È per questo che si parla dell'aldilà come di una pace e di una gioia eterna perché allora cadono le frontiere del tempo e dello spazio. Infine, s. Agostino ci mette in guardia contro l'allegria del vincitore. Chi prevarica sugli altri può forse godere, ma non conosce la serenità lieta dell'anima generosa, buona, onesta che ha la coscienza in pace. Tre nodi, dunque, ai quali legare il filo della vera felicità.
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