Suini, i costi (alti) della filiera
sabato 11 giugno 2011
La filiera suinicola veneta ha realizzato nel 2010 un valore alla produzione pari a 160 milioni di euro. In tempi di crisi e di bilanci ridotti all'osso, un dato come questo deve far sorridere e anche pensare. Perché, come pure gli ultimi numeri sul Pil resi noti ieri dimostrano, l'agricoltura può generare ricchezza e benessere. Sempre che esistano le condizioni minime per lavorare ed essere competitivi. Il suino veneto è uno di quegli esempi classici, che servono per capire bene in che condizioni possono ritrovarsi a lavorare i nostri produttori: bravi ma incatenati.
Il settore, lo scorso anno, ha prodotto 140mila tonnellate di carne in tre province dove si concentrano i capi allevati: nell'ordine Verona con il 43%, Treviso con il 17% e Padova con il 14% della produzione. Anche la localizzazione delle ditte trasformatrici è di fatto negli stessi territori degli allevamenti.
Ma tutta la suinicoltura italiana, incentrata sulla produzione di suini pesanti, risulta oggi penalizzata per la più elevata incidenza dei costi rispetto agli altri Paesi europei. A conti fatti, produrre qualità si dimostra ancora una volta un'operazione saggia ma che si paga a caro prezzo. Il costo di produzione del suino pesante italiano " categoria nel quale finisce anche quello "veneto" " è superiore (quasi del 20%) rispetto a quello medio europeo e, in particolare, per quanto riguarda l'alimentazione, il maggior costo ha raggiunto la soglia del 33 per cento. L'aumento dei costi di produzione, innescato dall'impennata dei prezzi delle materie prime per l'alimentazione, ha acuito una situazione già critica. Oltre che per la concorrenza sleale che pare non dare tregua, il settore è anche perseguitato dalle importazioni. Anche molti prodotti a base di carne suina che si fregiano del riconoscimento comunitario dell'Indicazione Geografica Protetta (Igp) " è stato detto nel corso di un summit dei suinicoltori
veneti, lombardi ed emiliano romagnoli " sono realizzati con carne di suino proveniente dall'estero, in quanto la normativa comunitaria prevede che non tutte le fasi produttive siano realizzate all'interno di una determinata area geografica.
Poi, come appena detto, c'è la concorrenza sleale, che, secondo i produttori, ha ben definite origini nelle carni che arrivano dall'estero, soprattutto olandesi, tedesche e belghe, spesso rese anonime ad arte sui mercati di vendita e trasformate in italiane (addirittura "nostrane"), aiutate da una non corretta informazione alimentare fornita ai consumatori.
E non basta, perché a metterci del suo pare vi sia anche l'Amministrazione Pubblica nazionale con un carico di burocrazia di non poco conto che, invece, sembra non toccare più di tanto le carni importate.
Insomma, 160 milioni di giro d'affari sono una bella cifra, che potrebbe crescere, ma che potrebbe anche essere azzerata, o quasi, se non si correrà ai ripari mettendo in campo tutte le misure necessarie.
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