martedì 4 luglio 2023
La frenesia di strumenti innovativi prodotti per farci godere appieno del progresso digitale non ha precedenti nella storia in termini di quantità, ritmo e irrazionalità funzionale. Ogni epoca ha avuto il suo upgrade tecnologico, ma quello attuale non ha precedenti per ridondanza contigua di infinite variazioni sul tema. Un modem, un frigo, un telemetro, una macchina, qualunque accessorio possiamo immaginare viene continuamente ritoccato con nuove (così sono vendute) features che ci fanno di stare al passo. Al passo del mercato, naturalmente, la maggior parte delle novità introdotte non saranno mai nemmeno esplorate dall’utente medio. Le IA hanno moltiplicato esponenzialmente la palette degli upgrade, spalancando le cateratte al riscatto dell’arnese stupido che rivendica un QI inclusivo di tutto rispetto, una tapparella, una presa elettrica, una pentola ci potranno affiancare, diventare amici, comprendere i bisogni, non è escluso che domani il trapano, tra un foro e l’altro, si produca in sofismi di ermeneutica morale. Idiozie che inquinano il cambiamento epocale di cui siamo perlopiù foraggio inutile. È comparsa di recente una fotocamera che considero a tutti gli effetti un presidio filosofico d’elezione sul fronte dell’estetica IA. Fotografa senza fotografare, e questo sarebbe già sufficiente a mettere in subbuglio qualunque Nietzsche, Kant o Smith redivivo. Non bastasse, il suo paradosso operativo si fonda su uno spettro di informazioni per natura irriducibili che rende omogenee nella risultanza di una immagine. Un vero e proprio juicer digitale che frulla tutto in uno smoothie cognitivo a grana fine. Non fotografa ma produce immagini, risultato dei dati che informano i suoi sensori distribuiti a raggiera dove era collocato un tempo il buon vecchio obiettivo. Un dispositivo che non vede e permette di vedere. Non si tratta banalmente di realtà aumentata, ovvero di una integrazione del percepibile con notizie e integrazioni che ne
arricchiscono la didascalia. Qui la luce, pilastro su cui fondiamo il primato indiscusso del visibile, non ha alcun ruolo. Paragraphica compie a suo modo una transustanziazione laica servendosi dell’alchimia digitale capace di convertire le mappe, il dato climatico, la gastrite o la ipertensione dell’osservatore in fotoni ante litteram eclettici e versatili, incaricati di mostrarmi ciò che vedendo, non vedo. Il produttore sostiene che la sua creatura migliorerà la nostra percezione troppo povera e lo farà senza “vedere”. Fa parte del gioco. Il mondo rappresentato dal primo diaframma cieco come gli indovini della tradizione non sarà una trascrizione ulteriore del “percepibile” ma invenzione exnovo di una realtà autoreferenziale che contribuirà alla strutturazione di linguaggi inediti, privi di una vera relazione con ciò che traduce in scena. La montagna “fotografata” in questo modo non è la montagna del picnic o della arrampicata. È altro, bisogna metterselo bene in testa, altro con le sue regole e i suoi rischi, la sua natura viene dai sensori che indagano infiniti frammenti di linguaggio per poi aggregarli in modi convenzionali di rappresentazione tentando la mimesi impossibile. Il travaso dalle questioni estetiche a quelle etiche è a un passo. Agire di azione negata, fotografare senza fotografare, giudicare senza giudicare, distribuire senza distribuire, curare per interposizione di un sensore, epitaffio di relazioni rappresentate e inesistenti. © riproduzione riservata
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