martedì 30 ottobre 2007
Non è l'ingiustizia in sé che ci ferisce ma è piuttosto l'esserne l'oggetto.
L'avevo solo vagamente sentito nominare; ora, però, ho davanti una nuova edizione dei Saggi di morale del filosofo e teologo francese del Seicento Pierre Nicole e, nello studio dedicato ai «modi per conservare la pace con gli uomini», trovo questa frase semplice ma non inoffensiva. Quante parole sono state dette e scritte, predicate e urlate, sul tema della giustizia e delle sue violazioni. Quanto sdegno è stato versato nei confronti delle ingiustizie, dei diritti conculcati, delle prevaricazioni perpetrate. Ma, se si prova a scavare sotto il manto dello sdegno e della retorica, si può correre il rischio di trovare solo enfasi e persino ipocrisia. Alcuni strenui difensori della giustizia si rivelano poi nel loro piccolo, cioè nella loro quotidianità, meschini, egoisti, prepotenti.
Quando, però, diventi tu vittima di un'ingiustizia, sia pur minima, allora riesci a capire cosa significhino il sopruso, l'abuso, l'iniquità, e la reazione diventa allora fiera, appassionata, sincera. Alla base, però, c'è l'interesse personale, l'essere toccati sul vivo, la sofferenza intima. Bisognerebbe, invece, essere più conseguenti e trasferire almeno un po' dell'autenticità nell'impegno a reagire contro le ingiustizie anche quando esse colpiscono gli altri. Il rigore morale costante e la coerenza sistematica sono la cartina di tornasole di una coscienza veramente etica. L'offesa inflitta all'altro deve lasciare una traccia anche nella nostra anima, proprio perché ci dobbiamo schierare per la giustizia in sé e non solo per quella che va a nostro uso e consumo.
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