Verità al midollo della vita
sabato 15 luglio 2017

La mia anima si rifugia sempre nel Vecchio Testamento e in Shakespeare. Là almeno si sente qualche cosa: là son uomini che parlano. Là si odia! là si ama, si uccide il nemico, si maledice ai posteri per tutte le generazioni; là si pecca

Soren Kierkegaard, citato in Scipio Slataper, «Ibsen»

Il libro di Geremia segna un nuovo stadio della coscienza umana, un salto nel processo di umanizzazione, una vera innovazione antropologica e spirituale. Tutto il suo libro, soprattutto le sue confessioni. E se le diamo il permesso di entrare nell’intimo della nostra coscienza, e siamo disposti a sostenerne i grandi costi, quell’antica innovazione può compiersi ancora, qui ed ora. Fin dal primo capitolo del suo libro, Geremia ha alternato il contenuto della sua missione profetica con le sue confessioni intime, svelandoci la sua anima, le sue speranze, le sue angosce. Ora, al culmine del suo diario interiore, arriviamo ai capitoli 19 e 20, quando i fatti narrati e la sua poesia raggiungono una vetta assoluta. Qui il profeta e l’uomo di Anatot si intrecciano profondamente, la parola di YHWH e quella di Geremia sfumano l’una nell’altra, formando un intreccio di vita e di poesia che rappresenta un autentico patrimonio dell’umanità. Dobbiamo dunque avvicinarci a questi capitoli togliendoci i sandali prima di ascoltare la voce che proviene da questo diverso roveto ardente, dove a bruciare non è un arbusto ma le ossa di Geremia.

All’inizio di questo dittico stupendo, troviamo un altro gesto, tra i più celebri e forti della Bibbia. Siamo ancora dentro la scena laicissima dell’officina del vasaio, quando incontriamo un nuovo comando: Geremia riceve l’ordine da Dio di comprare una brocca, e di recarsi nella "valle dei cocci", una discarica della città (Geremia 19,1-2). Siamo condotti fuori dalla città, in un ambiente che per il lettore avvezzo alla lettura biblica ricorda direttamente Giobbe, anche lui condotto da Dio e dalla vita sul mucchio di spazzatura più celebre della Bibbia. Geremia compra la brocca dal vasaio, porta con sé i testimoni più autorevoli del popolo, e spiega con le sue parole il senso di quel recarsi tra i rifiuti della città: Dio manderà su Israele una grande sventura, perché si è prostituita ai culti cananei e ai suoi sacrifici di bambini (10,3-9). E poi YHWH aggiunge: «Tu, poi, spezzerai la brocca davanti agli occhi degli uomini che sono venuti con te, e riferirai loro: ... Io spezzo questo popolo e questa città come si spezza questo vaso» (19,10-11). Tutto è chiaro e forte, e chiare e forti furono le conseguenze, che ci racconta Baruk, il segretario amico di Geremia, che qui entra nel libro e non ne uscirà più: «Il sacerdote Pashur, figlio di Immer, sorvegliante capo della casa di YHWH, udì Geremia fare questa profezia. Allora Pashur percosse Geremia, il profeta, e lo mise ai ceppi presso la porta superiore di Beniamino, che è nel tempio di YHWH» (20,1-2).

Quella brocca spezzata fa precipitare la situazione: non solo calunnie e congiure, ora Geremia è flagellato e torturato. L’obbedienza al comando di spezzare il vaso in mille pezzi segnò una svolta nella vita e nella carne di Geremia. Non capiamo il suo canto del capitolo 20, forse il più celebre – e più equivocato – di tutto il libro, se mentre lo leggiamo non vediamo Geremia con la brocca in mano e poi nel carcere. E da lì che intona il suo de profundis più bello, che dovremmo cantare solo insieme ai tanti profeti che continuano a essere torturati, carcerati, uccisi solo per essere fedeli alla voce della loro coscienza: Geremia canta anche per loro: «Mi hai sedotto, YHWH, e io mi sono lasciato sedurre. Tu mi hai afferrato, e mi hai fatto violenza, e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno» (20,7). Non dobbiamo concedere neanche un centimetro al sentimentalismo e al romanticismo che si sono troppo spesso appiccicati a questi versi tremendi. Qui la "seduzione" di cui parla Geremia è quella dell’adulto che adesca una persona minore, di un forte che ammalia e inganna un fanciullo per abusarne.

Il contesto drammatico e il verbo ebraico scelto non lasciano spazio ad equivoci, tutto è chiaro e semplice: Geremia dal fondo del suo carcere accusa Dio di averlo raggirato nell’età dell’entusiasmo della giovinezza e di avergli - semplicemente - rovinato l’esistenza. Parole forti che possono essere capite solo da chi per seguire una chiamata ha assaporato qualche boccone della stessa notte di Geremia. Sono parole adulte, e solo così sono meravigliose, perché ci aprono al tremendum delle vocazioni vere. Senza la discarica dei cocci, i ceppi e le torture dei capi della comunità, non si capiscono le vocazioni: ci si affaccia appena nell’anticamera, si resta nell’involucro del pacco, si sosta incantati nei primi minuti dell’alba della vita spirituale. Chi ha voluto capire le vocazioni profetiche vere è sempre andato tra i cocci rotti, nelle carceri, negli esili, ed è lì che dobbiamo tornare anche oggi se vogliamo incontrare i profeti. Ma siccome chi si trova in questi luoghi non fa discorsi spirituali, né prediche né miracoli né visioni, è muto, e quando dice qualche poca parola spesso maledice Dio e la vita – e solo con queste parole per noi incomprensibili sanno, qualche volta, pregare –, le vocazioni vere restano nascoste e strane, o le confondiamo con chi parla molto di Dio e di religione, magari con sottofondo musicale e immagini di tramonti rossicci. E così si resta fuori dalla profezia vera e disperata, la sola che può salvare: «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto. ... Perché sono uscito dal seno materno per vedere tormento e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?» (20,14-18). Non ci sono, sotto il sole, parole vocazionali più grandi di queste. Possono essere accostate soltanto ad alcuni salmi, a Qohelet, alla passione di Marco, e alle parole sorelle di Giobbe.

Ma questo capitolo venti ci dice qualcosa di ancora più intimo sulla natura e sul mistero di una vocazione. Al cuore della sua confessione, troviamo infatti queste parole: «Ho pensato: non lo menzionerò più, non parlerò più in suo nome. Ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa» (20,9). "Ho pensato": Geremia ci dice di aver pensato di tappare la voce, di non prestare più il proprio corpo e la propria bocca, di ritirarsi, di lasciare il suo compito profetico, di gettare il suo mantello alle ortiche. Da quanto dice ci ha pensato seriamente, ha provato veramente a cambiare vita, non è stata solo una tentazione rimasta nel regno dei pensieri. Ma, mentre provava a fuggire e forse fuggiva davvero, si è accorto che non ci riusciva: la vocazione era le sue ossa e la sua carne, che continuavano a bruciare. Ed è a questo punto che il profeta avverte una nuova stanchezza, che è qualcosa di diverso dall’esaurimento fisico o morale: «Io sono stanco di sopportarlo, non ci riesco» (20,9). È l’esperienza dell’accerchiamento, della morsa che afferra e stringe dentro, che non lascia scampo. Se è vero che nulla più di una vocazione dice libertà, perché seguendo la voce si scopre che si sta seguendo ciò che è più intimo delle proprie ossa, Geremia ci dice anche un’altra cosa: non c’è nulla di meno libero di una vocazione vera, perché non si ha una via di fuga, perché non si fugge dalle proprie midolla.

È questo il dramma vero di chi nella vita incontra una voce vera. Arriva il giorno in cui si accorge che la vita che sta facendo non è quella che pensava in gioventù. Tutto gli parla solo di questo inganno che gli ha fatto fare scelte che oggi sente come violenza e forzatura da parte di Dio, delle persone che nel suo nome lo hanno sedotto, degli ideali idealizzati cui ha creduto nell’età dell’innocenza. E si iniziano a sognare e a pensare parole diverse da quelle suggerite della voce, parole nuove nelle quali si crede di più, parole proprie che appaiono più sincere di quelle che ci ritrova a dire e a ripetere per vocazione.

La prova che sta attraversando Geremia non è allora semplicemente dovuta alle persecuzioni, alle catene, alle torture. È molto più profonda e tremenda. Un profeta non urla contro Dio e contro la vita finché crede nella verità della propria storia e della propria missione: non è il martirio che manda in crisi una vocazione, anzi a volta la esalta e la compie. Qui la prova di Geremia è di altro tipo: non crede più alla verità dell’inizio, si sente dentro una storia di inganno e di raggiro. Fa l’esperienza di un giovane plagiato da una ideologia o da una setta, che a un certo punto si sveglia e non vorrebbe fare altro che fuggire per tornare alla vita vera abbandonata per aver creduto a bugie, illusioni, false promesse. Perdiamo quasi tutto della forza di questa immensa confessione di Geremia se non la leggiamo in tutta la sua radicale nudità e nel suo scandalo.

Geremia non mette in dubbio la verità della voce che gli parla e che gli aveva parlato il primo giorno – altri profeti lo hanno fatto e lo fanno. Mette però in discussione la verità della propria missione e della propria vita, che sente totalmente inutile e sbagliata. E vuole scappare, riprendersi in mano quel che gli resta della vita. Ma è qui che ci si apre uno dei paradossi più splendidi della vita e del suo mistero: mentre fugge dall’illusione fa l’esperienza più intima che si può fare su questa terra: scopre un’altra verità nascosta dentro le sue ossa. Quella voce gli appare vera proprio mentre vuole farla tacere: è talmente vera che è impossibile fuggire. È sentire ardere nelle ossa la voce del primo giorno che dice, in quell’altro giorno adulto della vita, che quanto avevamo incontrato era talmente vero che oggi è impossibile fuggirgli, come è impossibile fuggire alla verità delle ossa e delle midolla. Ma prima di fuggire non potevamo saperlo. Non sappiamo come Geremia superò la crisi, non ce lo dice. Forse perché le crisi non si superano, entrano nel midollo della vita, la nutrono e la cambiano per sempre.

l.bruni@lumsa.it

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