Terremotati: la Chiesa c’è, e lo Stato?
mercoledì 10 luglio 2019

Terremoti dimenticati, una ricostruzione che tarda, territori che muoiono. Frasi e immagini. Denunce forti, quelle di papa Francesco e del vescovo di Rieti, Domenico Pompili, sabato scorso in occasione del Forum internazionale delle Comunità Laudato si’ ad Amatrice. Non meno forti quelle dell’arcivescovo di Spoleto, Renato Boccardo che ha convocato ieri una conferenza stampa per denunciare le «tante inadempienze». Parole confermate dalle condizioni della cittadina laziale colpita dal terremoto il 24 agosto 2016 e da quelle delle altre località terremotate in drammatica sequenza.

Ma anche da notizie che vengono dal Nord America. «Amatrice non è stata devastata da una fatalità. Non uccide il terremoto ma uno scorretto rapporto col territorio», ripete il vescovo di Rieti. Purtroppo drammaticamente vero. La scossa di tre anni fa che provocò 299 morti aveva una magnitudo 6.0 della scala Richter. Forte? Sicuramente, lì, distruttiva. E non solo come effetto del sisma. Quattro giorni fa, proprio sabato, la scossa che ha colpito la California è stata di magnitudo 7.1, cioè con una forza trenta volte maggiore. Ad Amatrice l’equivalente di 15mila tonnellate di tritolo, in California di ben 477mila.

Ma non c’è stato nessun morto e nessuna grave devastazione. Solo paura, ben affrontata dalla popolazione che sa di potersi fidare delle proprie case. Perché, bisogna ripeterselo senza sosta, "non è il terremoto che uccide ma la casa che ti cade addosso". Parole confermate dalle case di Umbria e Marche, colpite dalle scosse successive, che hanno subìto gravissimi danni, ma che in pochi casi sono collassate, perché erano state ben ristrutturate dopo precedenti terremoti.

Non così ad Amatrice, dove le inchieste della magistratura, alcune già arrivate a processo, hanno portato a individuare responsabili di crolli e morti. Il Papa, che vuole essere sempre informato sull’andamento della ricostruzione, è stato molto chiaro, denunciando come «tanti fratelli e sorelle ancora vivono nel guado tra il ricordo di una spaventosa tragedia e la ricostruzione che tarda a decollare». Monito già risuonato durante la sua visita a Camerino. Mentre il vescovo Pompili ha parlato di «ferita che tarda a rimarginarsi per la lentezza esasperante della macchina statale». Parole confermate dalla forte denuncia dell’arcivescovo di Spoleto: «Abbiamo ascoltato molte promesse e assicurazioni ma, accanto a qualche piccola realizzazione, di grande non abbiamo visto nulla. Sono più i vuoti che i pieni». E le immagini sono inaccettabili. Ancora cumuli di macerie, perfino dentro le chiese, palazzi semidistrutti, in particolare quelli pubblici, e soprattutto tantissimi «vuoti».

Pochissime case riparate, ancor meno cantieri. Il resto, e non sembri una mancanza di rispetto, sembra un grande villaggio vacanze: casette in legno, supermercati in legno, ristoranti in legno. Ordinati, efficienti, un segno di volontà di rinascita. Ma precari, provvisori. Sono passati tre anni. Prova della forza e del carattere di questa gente di montagna. Prova della sconfitta delle istituzioni. Delle ferite aperte indicate dal Papa e dai vescovi. Con un ulteriore rischio, sottolineato dai due pastori. «Temo che altre emergenze, come quella del Ponte Morandi, ci facciano dimenticare», avverte Pompili.

Non è certo una gara a chi ha l’emergenza più grave. È un invito a tenere «fisso lo sguardo su questo lembo di Appennino che rischia di essere dimenticato, ma è pur sempre la spina dorsale dell’Italia». Perché è vero che i nuovi eventi scalzano quelli vecchi dall’attenzione necessaria. E l’Italia è piena di emergenze, vere o create ad arte, vecchie, nuove o croniche, dai rifiuti all’acqua inquinata dai Pfas, dall’Ilva alla Xylella, dai ponti che crollano alle autostrade che non si finiscono. Emergenze vere, con tanto di commissari straordinari, anche se quasi sempre causate dall’uomo.

E mergenze pompate come l’«invasione degli immigrati ». Ma quella del Centro Italia è stata ed è ancora emergenza vera, per i tanti morti e le distruzioni, e – dopo tre anni – soprattutto per il rischio concreto che ci restino solo dei non-paesi, che perdono popolazione (già è avvenuto), lavoro, anima. «Si vuole che la gente rimanga a vivere nella nostra montagna, o c’è un progetto che la incoraggia a stabilire la propria residenza altrove?», è l’amara domanda di Boccardo. Non è un lontano terribile ricordo, ma un presente che interpella, e che non ha risposte, oltre alle belle promesse. Ancora una volta è la Chiesa a ricordarlo: continua a rimboccarsi le maniche con fatti concreti e si fa voce del popolo terremotato. La risposta deve arrivare. Ma reale, solida. Come le case che Amatrice e tanti paesi dell’Appennino Umbro-Marchigiano non hanno più da tre anni.

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