Stessa cultura altro mondo
mercoledì 30 marzo 2022

Sofia, Nika, Liudmila, Igor, Irina… Sto facendo l’appello dei nuovi iscritti al corso di lingua italiana. Il numero dei rifugiati ucraini cresce a vista d’occhio. Ogni giorno si presentano famiglie, spesso donne con bambini perché gli uomini sono rimasti a difendere la casa. Prendono posto in mezzo agli altri, eritrei, afghani, siriani, sudanesi, che non hanno mai smesso di arrivare. Nadia, una nostra volontaria, spinge la carrozzina del più piccolo, Nikita, frugoletto dagli occhi azzurri col ciuccio e il cappellino colorato, mentre sua mamma, Marina, si è accomodata in uno dei banchi che abbiamo collocato fuori, nel cortile davanti all’entrata dell’associazione, anche per evitare l’eccessivo affollamento.

Lo possiamo fare visto che a Roma queste giornate di precoce primavera ce lo consentono: il sole scalda le vecchie pietre e forse persino il nostro cuore stravolto dalle immagini televisive che giungono da Kharkov e Mariupol coi palazzi sventrati, le scuole distrutte, gli ospedali ridotti in macerie. Questo angolo della capitale, fra il cimitero del Verano e la circonvallazione Tiburtina, assomiglia a una retrovia pedagogica: al posto delle bende usiamo le matite. Ho la sensazione che le tante coppie di studenti e professori impegnate a studiare verbi e pronomi, stiano ricostruendo le sagome, almeno verbali, di un mondo in disfacimento.

Osservo l’opera di ripristino dall’interno della babele di idiomi. Lucia mi chiede di sbloccare la chiusura lampo del maglione del suo allievo, dodicenne, appena arrivato da Leopoli; mentre cerco di farlo riprovo l’antica sensazione che, molti anni fa, mi fece appassionare al mestiere dell’insegnante: assumere il ruolo del genitore assente, stavolta davvero per cause di forza maggiore, trasformando me stesso nel giocattolo dei figli altrui.

Non avevo più volte affermato che la paternità è sempre putativa? Eccomi accontentato. Ma oggi è una giornata speciale perché fra gli ultimi arrivi dovrebbe esserci una ragazza russa, originaria di San Pietroburgo, che, come sappiamo, è la città di Vladimir Putin, sebbene per me, prima di tutto, resti comunque sempre quella di Aleksandr Puškin. Anche lei vuole perfezionare l’italiano. Come dirle di no? Mi appresto a metterla vicina a una sua coetanea ucraina: se trovassi una docente disponibile, sto già pensando a Chiara che conosce il cirillico, potremmo tentare, in via sperimentale, una rappresentazione plastica della pace vivente, realizzando, nel nostro piccolo, sul campo delle operazioni, ciò che i grandi leader europei stentano a fare. Riunire, almeno idealmente, due popoli ora distanti.

Ma lo sono poi veramente? Numerosi artisti di entrambe le schiere sembrerebbero dimostrare il contrario: Yevhunia Korshunova, ballerina solista dell’Opera di Kiev, fuggita col figlio di 4 anni, viene oggi accolta a Milano al Centro Studi Coreografici del Teatro Carcano. Il marito, primo ballerino all’Opera di Kiev, rimasto in patria, sta combattendo sul fronte.

Olga Smirnova, prima ballerina del Bolshoi, esule in Olanda, si esibirà alla Scala il 9 aprile. Tugan Sokhiev, direttore del più grande teatro moscovita, si è dimesso proprio perché contrario alla guerra. Annunciato in rotta con Putin, del quale porta il tatuaggio sul petto (ma pare voglia cancellarlo) anche Sergeij Polunin, star mondiale del balletto, ucraino, considerato l’erede di Nureyev. Al Pime di Milano oggi si esibiranno i solisti del Teatro nazionale di Odessa, anche loro profughi.

Ci sono artisti giovanissimi come Yaryna, 12 anni, ucraina, bambina prodigio del pianoforte, con il fratellino Adrian (7 anni) riparati da Leopoli a Verbania presso una parente. Questa diaspora culturale illustra come meglio non si potrebbe il fratricidio in corso. Certo non sarà sufficiente una danza transnazionale a interrompere le operazioni belliche. Eppure, mentre aspetto la nuova alunna russa da sistemare accanto a quella ucraina, penso che la scuola non dovrebbe smettere di farci sognare un altro mondo.

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