venerdì 4 aprile 2014
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Caro direttore,
 
non me ne voglia il popolo del Bel Paese, ma è un fatto: ha (abbiamo tutti) la memoria corta. Un po’ come la gentile signora, che nel mezzo di un quiz tv, ha tranquillamente affermato che la Monarchia in Italia è finita nel 1968! Nulla mi toglie dalla testa che la vicenda dei “serenissimi” a Venezia sia opportunamente manovrata (come la volta scorsa... basta rivisitare i fatti di allora) per distrarre il popolino (noi). Uno Stato serio, considerata la vicenda semiseria in questione, manderebbe a casa i protagonisti con quattro sganassoni (uno a testa, e autorizzati – si intende – altrimenti altro faldone penale ...) a fruire di qualche simpatica usanza locale (ombrina o bicicletta, intese come bevande alcoliche, ndr). Invece, temo che si spenderanno risorse e tempo con fanfare inutili. Quello che è peggio è che molti operatori dei media ci cascano in pieno introducendo termini e figure retoriche assolutamente inappropriate. Tentare di governarci non è impossibile, è inutile, e non l’ho detto io!
Aurelio Cereti, Cento (Fe)
 
Già non l’ha detto lei, caro signor Cereti che «governare gli italiani non è difficile, è inutile». L’hanno detto almeno due storici capi di governo. Per primo, anche se a questo proposito abbastanza dimenticato, quel presidente del Consiglio di lunghissimo corso che fu Giovanni Giolitti. Per secondo, e a questo riguardo con duratura fortuna, il duce del fascismo Benito Mussolini. Enzo Biagi era solito attribuire la frase proprio a Giolitti, Indro Montanelli invece era tra i molti che la mettevano in bocca a Mussolini. L’uno o l’altro, per me, poco cambia. Io trovo che l’idea dell’ingovernabilità genetica degli abitanti della Penisola sia più cinica che realista, a parte alcuni momenti di sconforto quando anch’io sono tentato di gridare il contrario. Ma mi riprendo quasi subito, perché uno dei motivi della ordinaria trasandatezza con cui noi italiani gestiamo le nostre cose è proprio una certa insensata rassegnazione, l’incomprensibile resa alla deprimente logica del «così fan tutti» e dell’«ognun per sé». Tanto quando arriva l’emergenza, persino con maestria, sappiamo tirare quasi tutti e quasi sempre dalla stessa parte. E però a me, come a tantissimi altri, interessa soprattutto il giorno per giorno, e so che il meglio di noi emerge quando da creativi e persino straordinari solisti quali spesso siamo non ci dimentichiamo la solidarietà armonica dell’«essere coro» (che non è mai il banale, mimetico e utilitaristico «fare coro»).
Per questo non stimo in alcun modo i separatisti. Per questo non sopporto quelli che vorrebbero far fare salti all’indietro alla nostra storia civile. Per questo sgrano gli occhi davanti a coloro che immaginano di travestire un trattore da carro armato e di fare a pezzi la Repubblica «una e indivisibile» che, grazie alla vittoria di quelli dalla parte giusta, potette democraticamente nascere sulle macerie lasciate dalla guerra e dalla guerra civile. Non so, gentile amico lettore, se il processo intentato in quel di Brescia agli «indipendentisti» finirà in perdita «di risorse e tempo» e tra «fanfare inutili». Per un verso me lo auguro e per l’altro lo temo. Perché l’Italia e gli italiani non sono espressioni geografiche o una frase a effetto che somiglia a una cinica barzelletta, ma sono una questione seria, da maneggiare (e da difendere) con cura come ogni vero tesoro, come ogni amore. E perché le esagerazioni farsesche o tragiche producono solo disastri, prima nella testa della gente e poi nella concreta vita di tutti. Tanto per esser chiaro: non penso che il problema siano gli «sganassoni» dati o non dati con sufficienza a parolai secessionisti che forse sono soltanto dei velleitari o, se si vuole, degli eversori preterintenzionali. Il problema sono le troppe parole spese – e penso a diversi politici e a qualche commentatore –  per proclamarli più o meno furiosamente vittime, cioè alla fin fine eroi. Dire questo «non è difficile», ma purtroppo non è neanche «inutile». È falso e pericoloso. Mai alzare le spalle (o i polveroni) davanti a un nodo serio.
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