giovedì 27 luglio 2023
Il fondatore del Servizio Missionario Giovani racconta come quarant'anni fa decine di volontari rinunciarono alle ferie per trasformare un vecchio arsenale in disuso in uno spazio di accoglienza
Ernesto Olivero,83 anni, in una foto d'epoca all'esterno dell'ex arsenale militare di Torino

Ernesto Olivero,83 anni, in una foto d'epoca all'esterno dell'ex arsenale militare di Torino

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Quella del 1983 a Torino fu un’estate di ferie donate da tanti italiani per compiere un miracolo. Così, rispondendo all’appello di Ernesto Olivero e del Sermig, migliaia di donne e uomini senza distinzioni di età, fede e ideologie trasformarono un vecchio arsenale in disuso in uno spazio di pace, accoglienza e preghiera. Per avere un’idea, nel bilancio sociale dell’organizzazione sono state censite circa 650.000 ore di volontariato per le ristrutturazioni, l’equivalente di circa 81.000 giornate di lavoro donate da decine di migliaia di volontari. Torniamo all’estate di 40 anni fa con Ernesto Olivero.

Quando venne presa la decisione di convertire l’Arsenale in casa della pace del Sermig? Credo che l’Arsenale ci sia venuto incontro in modo molto particolare. Non è stato un fuoco di paglia, ma un cammino guidato da tanti incontri. Fu l’ex sindaco di Firenze Giorgio La Pira a farci innamorare della profezia di Isaia, del suo annuncio di un tempo in cui le armi non sarebbero state più costruite. Poi Paolo VI. Sentii di dovergli parlare per condividere il disagio di tanti credenti spiazzati da una Chiesa percepita, a volte, come ricca e distante. Andai in Vaticano senza appuntamento e, incredibilmente, mi ricevette. Mi ascoltò e alla fine abbracciandomi, mi disse: « Anche io la penso come voi, ma non sempre i cristiani mi ascoltano... Cominciate voi! Spero che da Torino, terra di santi, parta una rivoluzione d’amore». Sentimmo quelle parole come un mandato: l’arsenale era nel cuore di Porta Palazzo, il quartiere dei santi sociali della città. Al tempo, però, ancora non lo sapevamo. Tutto diventò chiaro qualche anno dopo nell’incontro con il capo del Governo dell’epoca, Giulio Andreotti, che ci aveva ricevuto per parlare del dramma dei profughi del Vietnam. A un certo punto, alla fine sentii di dirgli: «Presidente, a Torino c’è un ex arsenale militare. Ci aiuta ad averlo? ». I miei amici rimasero colpiti, non sapevano perché dicessi così. Anch’io ero stupito, perché non sapevo dell’esistenza di quel luogo. Quando tornammo a casa, andammo a cercarlo e lo trovammo.

Il 2 agosto 1983, in una vera propria estate dei miracoli, vi fu affidato l’Arsenale di Torino. Cosa accadde in quei giorni? Quel 2 agosto fu un’attesa che diventò realtà. Dopo anni di preghiera a Dio, di affidamento alla Madonna e richieste alle istituzioni, finalmente ci veniva affidato il primo padiglione dell’ex arsenale militare di Torino, un rudere annerito dal tempo e da un passato di morte fatto di bombe, cannoni e artiglieria costruiti per le guerre del Risorgimento e le due guerre mondiali. Entrai in quello spazio quasi spettrale con un crocifisso realizzato da alcuni carcerati che mi aveva regalato il mio arcivescovo, il cardinale Michele Pellegrino, e alcuni libri di Luisa Manfredi King, una cara amica partigiana e non credente. Non volevo entrare nell’arsenale a titolo personale, ma come Chiesa, come umanità. Volevo dare voce al mondo della buona volontà che crede nella pace, nella giustizia, in un mondo migliore. Fu un inizio, quel giorno entrammo in una sproporzione. Anni dopo, quando l’intera superficie assegnata al Sermig diventò di 40mila metri quadrati, un impresario ci disse che per rimettere tutto a posto, pagando interamente la ristrutturazione, sarebbero serviti 400 miliardi delle vecchie lire. Eravamo giovani, inesperti, squattrinati, ma avevamo un sogno che, da quel giorno, trovò casa tra queste mura.

Cosa c’è dietro quel sogno realizzato? L’Arsenale ci ha insegnato che il campo di Dio è la sproporzione ed è questo il miracolo quotidiano: non hai forze abbastanza, ma hai fiducia. Non sfidi, ma ti affidi e Dio opera attraverso la gente che ci ha aiutato. Bambini e ragazzi che venivano in questo rudere con i loro insegnanti o con gli educatori, adulti che venivano a scrostare i muri e a fare i muratori, professionisti che ci regalarono i primi progetti e anche i materiali, artisti che hanno reso bello ogni ambiente. Ogni giorno abbiamo sperimentato il farsi provvidenza di Dio. L’Arsenale della Pace per me è una meraviglia perché ogni mattone ha il sapore della restituzione di tempo, risorse, professionalità di milioni di persone. È andata proprio così e non abbiamo mai sentito il Sermig come opera nostra, ma Sua.

Quando chiedeste aiuto ai volontari? E chi rispose? Fummo da subito sommersi da persone di ogni età, cultura e religione che volevano aiutarci. Io lavoravo in banca, i miei amici avevano altri lavori. Ricordo che dal 2 agosto 1983 ogni pausa e tutto il tempo libero, ferie comprese, era dedicato all’arsenale. Ci trovavamo per lavorare, inventare soluzioni e, intanto, continuare ad aiutare la gente che ci chiedeva aiuto. Quando ricordo quegli anni mi commuovo, è come se rivedessi i volti di uomini, donne, giovani e anziani, che si sono messi in gioco fino in fondo.

C’è qualcuno che la colpì? Una sera mi avvicinò un signore anziano che voleva aiutarci. Sul momento rimasi un po’ sorpreso perché in quel periodo servivano braccia per servizi faticosi. Gli chiesi, allora, di aiutarci a togliere vecchi chiodi da alcuni travetti di legno. Si presentò puntuale per settimane e nella discrezione assoluta eseguì il suo compito. Un giorno gli dissi che avevamo dei problemi sul progetto. E lui con semplicità mi disse che era ingegnere. Accettò di vedere i disegni, ma quando si accorse che i calcoli erano firmati da un altro ingegnere disse che doveva essere autorizzato. Lo tranquillizzai, presi il telefono e chiamai il collega che ne fu ben contento. «Come si chiama?». Con la cornetta ancora in mano, lo domandai al signore distinto. «Giulio Pizzetti», rispose. « Ma Ernesto! – rispose il mio interlocutore al telefono –. Pizzetti è un professore di ingegneria famosissimo in tutto il mondo. Questa cosa è eccezionale!» Giulio Pizzetti era un noto docente di Scienza e Tecnica delle Costruzioni al Politecnico di Torino e nelle Università di mezzo mondo. Non mi aveva mai detto: « Lei non sa chi sono io», ma si era presentato fraternamente, senza titoli e per questo divenne uno degli amici più cari della nostra casa.

All’inaugurazione venne il presidente Pertini. Come lo convinse? La cosa bella è che non l’ho convinto. Era il 1984 e posso dire che c’erano stati dei problemi burocratici legati alla consegna dell’Arsenale al Sermig. Ne parlai con il Capo dello Stato che, a un certo punto, mi disse: «Vengo io ad inaugurare l’Arsenale». «Ma presidente, è ancora un rudere, non c’è nulla da inaugurare!». « Ho detto che vengo io!!». Non osai ribattere. Sandro Pertini trascorse un pomeriggio indimenticabile con noi, venne – come ci scrisse – «ad esaltare con i giovani la pace che è vita e a condannare la guerra che è morte».

Come cambiò la sua vita e quella del Sermig dopo quell’estate? È stata la prova che la disponibilità affidata a Dio può aprire strade inimmaginabili. Tutti noi all’inizio pensavamo di aver trovato una nuova sede per il Sermig, nato nel 1964 con il sogno di sconfiggere la fame nel mondo. Per anni avevamo detto che le chiese avrebbero dovute essere sempre aperte, che nessuno doveva rimanere indietro, che ogni situazione aveva bisogno di essere accolta. Dovevamo provare a farlo in prima persona. E così abbiamo accettato di farci cambiare i piani dall’imprevisto, dal campanello, dalle mille realtà che ci entravano in casa. Mai avrei immaginato che l’Arsenale potesse diventare casa per ex terroristi che volevano cambiare vita, giovani che volevano uscire da dipendenze infami, stranieri senza punti di riferimento, persone che chiedevano un aiuto per dormire, mangiare, curarsi. L’Arsenale della Pace oggi è molto di più della sede di un gruppo, è la casa di una fraternità aperta ai bisogni della gente.

La chiusura della fabbrica d’armi da guerra doveva essere simbolo di un’epoca nuova. È ancora così nell’estate del 2023 in cui “pace” sembra essere parola in disuso? È ancora così. Credo che l’Arsenale ci ricordi che la pace non è una parola, non è un sentimento o un sorriso e neppure uno slogan. È la scelta di singole persone disponibili a educare le loro coscienze, che indirizzano i loro passi sulla via della pace attraverso opere di giustizia. So che in questa guerra in Ucraina entrano in gioco tanti aspetti e tante sfumature, eppure noi dobbiamo immaginare quello che ancora non è. Dobbiamo batterci in prima persona per un mondo in cui il diritto internazionale e la democrazia siano una bussola, le armi non siano più costruite, in cui le controversie si possano risolvere per via diplomatica. Non voglio passare per utopista, ma più i tempi sono complicati, più bisogna avere il coraggio di gridare e ricordare al mondo che la via del bene è la meta cui tendere.

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