venerdì 28 luglio 2023
Contro le liste di attesa infinite e la crescente monetizzazione dei servizi vanno ridefiniti i compiti delle due entità, promossi i soggetti sociali, fissate le priorità e integrate le mutue
Crisi della sanità, quattro piste per riequilibrare pubblico e privato
COMMENTA E CONDIVIDI

Che la sanità italiana sia in profonda crisi è ormai chiaro a tutti. Su queste stesse pagine abbiamo più volte richiamato l’attenzione sulla scarsità delle risorse e degli organici, sulla carenza dei servizi per la continuità assistenziale, per le cure a lungo termine e per l’assistenza domiciliare, sulla debolezza dei programmi di prevenzione, specie per quanto riguarda le emergenze pandemiche e l’impatto ambientale e climatico sulla salute, e sull’insufficienza degli interventi per salute mentale e disagio socio-sanitario.

Conseguenza ne è che gli italiani sono costretti a ricorrere sempre più frequentemente alla spesa di tasca propria per l’accesso in tempo utile a prestazioni e servizi necessari. Da cui una spesa privata delle famiglie per la sanità molto alta, e peraltro ben poco intermediata da mutue, fondi, casse e assicurazioni (come avviene in altri Paesi), che comprende la spesa per ticket e quella per intramoenia, privato sociale e privato-privato. Basti dire che nel 2021 la spesa sanitaria complessiva, pari a 168 miliardi di euro, è stata secondo dati ufficiali per il 75,6% a carico delle amministrazioni pubbliche (127 miliardi), per il 21,8% a carico delle famiglie (36,5 miliardi) e solo per il 2,7% a carico di regimi di finanziamento volontari. E la sproporzione risulterebbe ancora più elevata se si potessero conteggiare le spese, spesso sommerse, per cure informali e a domicilio.

Ciò che è ancor più grave è che, come sempre accade, la ristrettezza dei mezzi e quella che in passato veniva chiamata “la monetizzazione dei bisogni” incide pesantemente sulla salute dei più deboli e poveri, come documentato dalla correlazione tra agiatezza e accesso ai servizi a pagamento e tra disagio economico e “rinuncia” a servizi necessari. In flagrante contraddizione con l’universalismo e l’equità, principi fondativi del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), si registra infatti la crescita della “povertà sanitaria”, ovvero l’impoverimento a causa della spesa sanitaria privata, che riguarda quote tra l’1 ed il 3% della popolazione, con punte del 12% per i più poveri, e dipende spesso dalle cosiddette “spese catastrofiche” (nei campi dell’odontoiatria, dei farmaci, della specialistica e della diagnostica). E grida vendetta in modo particolare il rapporto patologico e decisamente contrario ai valori del Ssn che si è venuto a creare tra servizi offerti (sia nel pubblico che nel convenzionato) in regime di solo ticket, e servizi offerti dalle stesse strutture (pubbliche e convenzionate) in regime di Intramoenia o di Privato Sociale, con costi ben maggiori per il paziente, e soprattutto con liste di attesa separate e molto più brevi, secondo una logica perversa di selezione economica della domanda e degli accessi.

Recenti segnali che arrivano dal Ministero della Salute sembrano andare nella direzione giusta, con l’aumento dell’impegno finanziario per la spesa sanitaria pubblica, per la formazione del personale e per le nuove assunzioni. Ma le misure previste sono decisamente insufficienti a sanare lo scarto tra domanda e offerta e l’iniquità degli accessi, tanto più che la situazione è aggravata dal progressivo ampliarsi delle prospettive e delle sfide del mondo della sanità, per il prolungamento della vita, per l’impatto della crisi climatica e ambientale e per lo sviluppo di sempre nuove e costose terapie e tecnologie. Molte delle questioni all’ordine del giorno richiedono infatti un impegnativo e costoso cambio di paradigma dal punto di vista delle strategie di sistema, nel senso della One Health e della sanità di comunità. Strategie inattuabili senza il coinvolgimento di tutti gli stakeholder, pubblici e privati.

Già oggi il contributo della sanità privata è grande. Limitandosi alle strutture convenzionate con il Ssn, il privato accreditato eroga il 70% delle prestazioni di lungodegenza e riabilitazione (le cosiddette prestazioni post-acute), il 65% di quelle ambulatoriali, il 25% di quelle per acuti (con alcune Regioni ben al di sopra come il Lazio al 50% e Lombardia al 40%) e l’84% delle Rsa. Per non parlare del lavoro delle famiglie, dei care-giver, dell’associazionismo e del volontariato nel campo della continuità assistenziale, della cura dei non autosufficienti, della prevenzione e dell’outreach, vale a dire quella sanità e quel sociale attivi, che vanno alla ricerca della propria utenza e dei bisogni più urgenti da soddisfare. Nonché del ruolo delle tecnologie abilitanti per l’informazione, l’empowerment (la consapevolezza delle proprie possibilità) dei cittadini, l’inclusione sociale e il superamento delle barriere all’accesso.

Il rapporto con il privato in sanità va quindi rivisto e rapidamente in almeno 4 direzioni principali. La prima quella di una definizione chiara dei rapporti tra servizi pubblici e servizi privati convenzionati, sia a livello di indirizzi nazionali, che di strategie regionali, che definisca compiti e responsabilità per le diverse funzioni, da quelle di coordinamento e valutazione, a quelle di produzione e gestione dei servizi, a quelle di empowerment, partecipazione e sussidiarietà, in un‘ottica di integrazione orizzontale e verticale e di non sovrapposizione. La seconda quella di un superamento, sia nel pubblico che nel privato, delle attuali modalità di gestione delle liste di attesa in base al costo sostenuto dai pazienti per le prestazioni, da sostituire con un corretto criterio di priorità e urgenza clinica. La terza, la valorizzazione del privato sociale e delle comunità di vita e abitazione per la promozione della salute, secondo il modello delle “Città sane” e della medicina di comunità, come indicato dalla Missione 6 del Pnrr. La quarta con la riapertura di un dialogo costruttivo con il mondo delle mutue e assicurazioni, che in molti casi hanno abbracciato approcci integrati interessanti, specie nell’ambito del cosiddetto “welfare aziendale”.

Utopia? Previsione azzardata? Vogliamo sperare che la spinta di resilienza trasformativa innescata dalla pandemia apra una stagione nuova di ridefinizione dei ruoli del pubblico e del privato in sanità, lasciato irrisolto da troppo tempo ormai, ai fini di un livello più adeguato e giusto di tutela della salute individuale e collettiva.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: