domenica 1 febbraio 2009
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La Corte d’Appello di Milano «non ha invaso territori altrui». La pe­rentoria affermazione è del suo pre­sidente, Giuseppe Grechi, che ieri, i­naugurando l’anno giudiziario nel di­stretto meneghino, ha difeso a spada tratta il decreto del 25 giungo 2008, con il quale veniva dato via libera al­l’abbandono di Eluana Englaro al suo destino di morte per fame e sete. Un giudizio che appare in palese con­traddizione con quello espresso mer­coledì scorso dal presidente della Cor­te Costituzionale, Giovanni Maria Flick, che riferendosi alla vicenda nel suo complesso ha parlato esplicita­mente di un caso di «supplenza giu­diziaria ». Con la sua frase auto-assolutoria, l’al­to magistrato sorvola anche su quel­la specie di 'protocollo' che la prima Sezione civile della stessa Corte ha sti­lato in coda alla sua decisione: ci rife­riamo alle «disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa» - così ven­gono definite - che vanno dall’indica­zione del luogo dove avviare la so­spensione del sostegno vitale («ho­spice o altro luogo di ricovero confa­cente »), all’eventuale somministra­zione di «sedativi o antiepilettici», all’«accudimento accompagnatorio della persona» di Eluana, che com­prenderebbe l’«umidificazione fre­quente delle mucose», la «cura dell’i­giene del corpo e dell’abbigliamento, ecc.». Un vero e proprio 'disciplina­re' esecutivo per i 15-20 giorni di a­gonia prevedibili che, con ogni evi­denza, non è facile considerare tra le competenze tipiche di un giudice. Ma il dottor Grechi non si è limitato a sancire che i suoi colleghi hanno fatto, in definitiva, 'il loro mestiere'. Tesi per altro di nuovo contraddetta ieri dagli Ordini dei medici di Milano e Bologna, che denunciano il rischio di dar vita a una nuova categoria ­quella del 'medico per sentenza', ri­dotto a mero esecutore di «volontà sanitarie altrui» - rifiutandolo netta­mente. Grechi ha invece ribadito an­che il dovere del magistrato a dare sempre una risposta al cittadino, «per quanto nuova o difficile sia la do­manda di giustizia che gli viene ri­volta». Ed ha infine ammonito il po­tere legislativo (Parlamento) e quel­lo esecutivo (governo, regioni ed en­ti locali) a non «porre nel nulla le sen­tenze definitive», perché in base alla Costituzione «un potere non può in­terferire in un altro». Ebbene, sul primo punto, fior di giu­risti hanno più volte contestato la for­zatura compiuta fin dall’inizio, a­vendo consentito il ricorso alla pro­cedura di 'volontaria giurisdizione', usata di norma per curare e regolare beni e interessi privati, ma in questo caso estesa anche alla disponibilità del bene personale per eccellenza, quello della vita. Né può bastare, co­me fa il magistrato milanese, chia­mare in causa, a conferma della cor­rettezza della strada intrapresa, la Cassazione, la Consulta e la Corte eu­ropea dei diritti umani. Perché è ben noto (ma non al grande pubblico, purtroppo), che questi organismi non sono minimamente entrati nel merito della decisione, apprezzan­done solo gli aspetti tecnico-proce­durali (ancora Flick docet). Quanto all’invito a chi fa le leggi e a chi le attua a non mettere i bastoni fra le ruote, tanto per tradurre in linguaggio corrente l’invito del presidente della Corte d’Appello, va spesa ancora qual­che parola. Proprio il rigoroso «anco­raggio ai principi della Costituzione» da lui invocato, ci aiuta a ricordare che, nel nostro sistema, la sovranità in ul­tima istanza appartiene al popolo, il quale la esercita di regola negli orga­nismi legislativi a ciò deputati. Nessun dubbio dunque che le Camere, pur non potendo più intromettersi in un decreto volto ad attribuire una facoltà riconosciuta a un singolo (staccare il sondino ad Eluana), possono sempre intervenire per regolare i contenuti delle sentenze (per esempio stabilen­do che alimentazione e idratazione non sono terapie mediche disponibi­li) ed anche per disciplinare i com­portamenti degli attori estranei alle parti in causa (pensiamo appunto al personale sanitario coinvolto nell’e­secuzione del decreto in questione). In definitiva, non è qui in discussione la buona fede e le stesse buone in­tenzioni di chi difende il proprio ope­rato. Non sembra però accettabile teo­rizzare, come ormai sempre più spes­so accade di ascoltare anche in sede politica, una presunta superiorità e­tica 'a priori' degli operatori della giu­stizia e delle loro scelte, che finirebbe davvero per intaccare, essa sì, il prin­cipio irrinunciabile della separazione dei poteri.
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