La lezione degli accordi di Oslo: per immaginare una via d’uscita
martedì 10 ottobre 2023

Il livello di violenza, morte e distruzione raggiunto in Israele con lo spregevole attacco terroristico lanciato da Hamas lascia letteralmente sgomenti. E riporta l’attenzione su un conflitto che da decenni non riesce a trovare soluzione. Secondo alcuni osservatori l’escalation era purtroppo prevedibile, anche se non in queste proporzioni senza precedenti per intensità e perdite umane; lo era considerato come, negli ultimi mesi, fossero aumentati in maniera drammatica scontri e manifestazioni aggressive.

In una prospettiva che già ora – pur nella drammaticità degli eventi in corso, con i missili che continuano a cadere, gli ostaggi nelle mani di Hamas e l’assedio totale a Gaza – provi a immaginare una possibile via d’uscita, il conflitto israelo-palestinese è anche l’esempio di come i contrasti violenti tendono a riproporsi e ad alimentarsi se gli accordi di pace non sono ben articolati e definiti in una prospettiva di lungo periodo, pensando cioè sin dall’inizio al tempo della pace.

Nel 1993, quando furono firmati gli accordi di Oslo, il mondo si ritrovò attraversato da una corrente di ottimismo, nella speranza che da quel momento in poi si sarebbe avviato un processo di pace stabile e duraturo tra le parti. Tutti ricordano la foto di Bill Clinton insieme a Yasser Arafat e Shimon Peres. Quella storica intesa, però, mostrò fin da subito i suoi limiti, tanto che già all’indomani della sottoscrizione, agli occhi degli analisti più attenti, appariva chiaro che sarebbe stato difficile raccogliere i frutti sperati.

In breve, l’intesa raggiunta a Oslo, se interpretata alla luce degli studi che valutano gli accordi di pace, non presenta i caratteri associati alla stabilità e alla risoluzione dei conflitti.

Tra i limiti più rilevanti, l’assenza di misure in grado di assicurare una maggiore autonomia economica dei palestinesi. Il protocollo di Parigi, ovvero l’appendice economica degli accordi che ancora governa le relazioni tra le due parti, non prevedeva un reale percorso di cooperazione che potesse portare a una progressiva integrazione economica dei palestinesi. Viceversa, in virtù delle esigenze di sicurezza, venivano legittimate misure in grado di minare la più debole tra le due economie, compromettendo la mobilità dei lavoratori palestinesi e in particolare ilnumero di quelli impiegati in Israele.

Questo, nei fatti, ha contribuito a una minore crescita economica dei territori e anche a una progressiva separazione tra l'economia israeliana e quella palestinese. Non meno importante, ad esempio, è la dipendenza palestinese da Israele per quanto riguarda il commercio con il resto del mondo. Non potendo avere un pieno controllo dei confini, il commercio internazionale è di fatto limitato, come anche la possibilità di definire una propria politica commerciale. Gli effetti più profondi sull'economia, tuttavia, discendono dalla capacità di appropriazione della terra per gli insediamenti dei coloni e dal pieno controllo di una risorsa vitale come l'acqua da parte degli israeliani.

Questa profonda asimmetria ha contribuito a limitare i processi di sviluppo dell'economia palestinese, che non a caso continua a essere profondamente fragile, ma soprattutto foriera di instabilità: il tasso di disoccupazione è superiore al 25% e in particolare quella giovanile si attesta intorno al 41%. La nuova ondata di violenza non si fermerà facilmente.

Ed ha assunto le drammatiche fattezze di una nuova guerra. Ma ogni futuro accordo di pace dovrà tenere conto degli errori del passato e fondarsi su nuove regole, quello che è stato fatto in Europa all'indomani della Seconda guerra mondiale. Memori degli errori commessi alla fine della Prima guerra mondiale, i leader europei riscrissero le regole ripartendo dall'integrazione delle risorse e dell'economia in mondo da rendere nel Vecchio Continente una nuova guerra 'impensabile” La storia ha dimostrato che la pace è stata possibile perché è stata una conquista condivisa.

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