martedì 20 gennaio 2015
Dopo l'invito lanciato dalla Rappresentante Ue Mogherini. Occorre separare religione e politica,superando la visione salafita. (Vittorio E. Parsi)
INTERVISTA Maria Voce: si deve partire dalla condivisione
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È certamente condivisibile l’appello lanciato dall’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea, Federica Mogherini, in apertura della conferenza dei ministri degli Esteri dell’Unione riuniti ieri a Bruxelles. «Il terrorismo non è una questione tra occidente e islam (...) gli attacchi terroristici prendono di mira la maggior parte dei musulmani nel mondo, così che noi abbiamo bisogno di un’alleanza, abbiamo bisogno di un dialogo per affrontare la questione insieme». Il rischio di scivolare in una logica di contrapposizione frontale tra mondo occidentale e mondo islamico è infatti troppo grande per essere preso alla leggera. In molti soffiano del resto sul fuoco, nella speranza di saperlo poi controllare. Illusioni, neppure troppo pie, dei soliti speculatori dell’odio, peraltro alimentati dai discorsi stucchevoli e semplicistici di quelli che si ostinano a non vedere quanti problemi si celino sotto la rassicurante etichetta del 'dialogo'.   Che i leader europei e quelli della stessa Unione siano disponibili a più di un compromesso pur di difendersi dalle insidie del terrorismo jiahdista globale lo avevamo visto fin dal giorno della manifestazione di Parigi, quando, accanto ai leader dei Paesi democratici, marciavano anche i rappresentanti dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo, ovvero tra i principali responsabili del finanziamento di formazioni fondamentaliste che non fanno mistero di non disdegnare la lotta armata, ma soprattutto i principali propagatori di quella versione ipertradizionalista dell’islam che rappresenta il vero brodo di cultura in cui si è sviluppato il terrorismo islamista. È bene forse partire proprio da qui, dalla politica perseguita dai sauditi e profumatamente finanziata per provare a capire come, nel passaggio dall’enunciazione di principio del dialogo alla sua pratica attuazione si nasconda più di un’insidia. Già, perché se oggi all’interno del variegato panorama del mondo islamico la voce dei radicali è così potente, in grado tante volte di sovrastare le tante voci più moderate che pure esistono e sono maggioritarie, la responsabilità è proprio della propaganda saudita (e qatarina). Sono decenni che le autorità di Riad diffondono a suon di petrodollari la versione wahhabita (o salafita) dell’islam: ovvero quella su cui è fondata l’alleanza tra 'trono e altare' all’interno del Regno.   Senza quest’opera di proselitismo che ha disseminato di moschee, madrasse, centri islamici e predicatori salafiti tutto il mondo, l’evoluzione, o perlomeno la dialettica interna della 'religione del Profeta' avrebbe probabilmente seguito un corso ben diverso. È stata la predicazione di un ritorno alle origini, al momento di splendore della rivelazione e alle conquiste operate da Maometto e dai suoi compagni e successori a dare maggior spazio a chi voleva declinare l’islam e il jihad in termini 'militarizzati'. Non dovremmo infatti dimenticare che, proprio alle sue origini, l’islam è contemporaneamente religione e insieme di precetti comportamentali che però si trasformano in 'leggi' a seguito della conquista, sottomissione e conversione da parte di leader che sono, a un tempo, autorità spirituali, capi politici e comandanti militari. Ogni ossessione per il ritorno alla purezza delle origini rischia così di implicare (e nel caso del salafismo oggettivamente implica) una maggior commistione tra fede religiosa, potere politico e persino lotta armata. Tutto questo va poi inquadrato sullo sfondo della mancata affermazione di qualcosa di equivalente allo Stato moderno di matrice occidentale all’interno della tradizione islamica. Se dimentichiamo ciò, dimentichiamo anche che la cifra della relazione tra cristianesimo e politica nella modernità deriva da due punti egualmente importanti: il messaggio evangelico (date a Cesare quel che è di Cesare...) e la dialettica tra istituzioni politiche e istituzioni religiose, grazie alle quali si è affermata la laicità.   Riflettendo sulla presenza ai lavori del vertice del segretario generale della Lega araba, è fin troppo noto come nella Lega siano rappresentati regimi che sono lontanissimi da qualunque prassi democratica, che reprimono con feroce regolarità la libertà di espressione e che, in taluni casi, sono o sono stati sospettati di finanziare i terroristi o i loro 'fiancheggiatori'. Eppure, tutti minacciati dall’esistenza dello Stato islamico e quasi tutti ostili ad al-Qaeda. Questi gli interlocutori politico-istituzionali, dunque. Esiste poi la sterminata galassia di organizzazioni non governative, in Europa e fuori, che lavorano per rendere più semplice ed efficace l’integrazione di cittadini e comunità islamiche nei sistemi politici e legali occidentali e per rendere meglio compatibili islam e democrazia nei Paesi a maggioranza islamica. Questa è la sfida culturale probabilmente più impegnativa: perché mentre è più facile appellarsi ai princìpi liberali per ottenere tutela quando si è minoritari, ben più arduo e applicare i medesimi princìpi quando si è egemoni dentro una società. Basti pensare al caso del Pakistan, formalmente fuoriuscito dalla lunghissima parentesi dei regimi militari, e però mai approdato compiutamente al lido delle democrazie liberali. Il caso, sconvolgente ma non eccezionale, di Asia Bibi, la cattolica condannata a morte in Pakistan per 'blasfemia' a causa della difesa delle propria fede cristiana, tutt’ora in carcere e in attesa di essere giustiziata, testimonia drammaticamente la realtà dei fatti.   Arriviamo così all’ultimo punto toccato da Mogherini. «Tracciare la linea tra la libertà di espressione e il rispetto è sempre stato uno dei dilemmi filosofici, ma io penso che noi dobbiamo guardare a questo dilemma con molta attenzione in questi giorni, vedendo cosa sta succedendo in molte parti del mondo». Ora, è fuor di dubbio che sia condivisibile e auspicabile un atteggiamento più rispettoso nei confronti del credo religioso di chiunque. Ma sarebbe rischioso che ciò venisse imposto per legge e non per educazione (e diffuso sentimento sociale di riprovazione dell’offesa all’altro) o che le istituzioni laiche dello Stato e dell’Unione rinunciassero a tutelare il diritto di esprimere le proprie opinioni, anche ricorrendo alla satira. Proprio il caso di Asia Bibi ci ricorda come sia pericolosamente ambiguo il limite posto dall’offesa ai sentimenti della maggioranza... Del resto, la sensibilità esasperata con cui una parte consistente, forse persino maggioritaria, dei fedeli musulmani registra tutto ciò che tocca la propria religione è anch’essa, almeno in parte, figlia della predicazione salafita oltre che dell’interesse di tanti governi e responsabili politici a dirottare la rabbia e la frustrazione dei propri sudditi verso comodi bersagli esterni.  Non c’è nulla di necessariamente statico dentro l’islam e il suo rapporto con la politica, e quasi sempre nel corso della storia è stata la seconda a influenzare il concetto di 'ortodossia' della prima, proprio come accade ora ad opera dei sauditi. Riconoscere gli ostacoli che esistono sul cammino della liberazione dell’islam e dei musulmani dalla manipolazione di circoli ultraconservatori politicamente orientati è il primo passo anche verso un’intesa migliore tra Paesi a maggioranza islamica e Occidente.
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