Ma per l’occupazione ci vuole giustizia
sabato 3 giugno 2017

«Non assistenza, ma lavoro»: questo, tradotto in slogan è uno dei messaggi centrali trasmessi sabato 27 maggio da papa Francesco ai lavoratori dell’Ilva a Genova. E ha aggiunto: «La mancanza di lavoro è molto più della mancanza di reddito per vivere. (…) Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro e per mezzo del lavoro sono unti da dignità. Per questa ragione attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. E quando non si lavora, si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo è la democrazia che entra in crisi. È anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione Italiana: 'L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro'». Parole chiare, a indicare che il compito primario dell’economia è permettere a tutti di vivere dignitosamente attraverso il proprio lavoro, nel rispetto della natura e di tutte le dimensioni della persona. Se fallisce in questo, ha fallito in tutto.

Da vari anni la situazione del lavoro è in situazione di stallo, non solo in Europa, ma nel mondo intero. È come se l’economia dicesse a milioni di persone che sono di troppo, perché non ha bisogno di loro. In Italia sono circa sette milioni quelli che vorrebbero un lavoro salariato, ma non lo trovano. In Europa, area euro, secondo la Banca centrale europea, i disoccupati, sottooccupati e scoraggiati sono 30 milioni, il 18% della forza complessiva. Un’enormità. Ma la disoccupazione, al pari della povertà, non è una fatalità: entrambe sono figlie degeneri dell’iniquità.

Dal 1999 al 2013, nei Paesi più avanzati, la produttività del lavoro, ossia la resa produttiva per ora lavorata, è aumentata del 15%, ma i salari sono rimasti pressoché fermi. Come dire che tutta la ricchezza in più prodotta si è concentrata nelle tasche di pochi. Esempio estremo: nel 2010 negli Stati Uniti sono stati registrati stipendi di dirigenti di fondi speculativi, 20mila volte più alti del salario medio degli operai. Dal 1980 al 2005, più dell’80% degli aumenti di reddito sono andati all’1% più ricco della popolazione. Per contro, dal 2004 al 2014 il reddito medio delle famiglie americane è diminuito del 14%. In Italia non va meglio. Secondo il Censis, i dieci italiani più ricchi dispongono in media di un patrimonio procapite di 7,5 miliardi di euro a testa, pari a quello posseduto da 50.000 famiglie operaie messe assieme.

Ma gli economisti lo sanno: se gli aumenti di ricchezza prodotta vanno a finire nelle tasche di pochi, il sistema si inceppa perché non si chiude più il cerchio fra produzione e consumi. Per cui si va incontro a quella che è stata già battezzata la 'stagnazione secolare'. Robert Reich, docente all’università di Bekerley ha constatato che il sistema va male perché ha dimenticato le tre lezioni più importanti di economia che avevamo imparato. La prima è che se la gente ha salari troppo bassi, non può sostenere un processo di crescita.

Anni fa il sistema teneva perché i sindacati erano abbastanza forti da riuscire a garantire ai lavoratori aumenti salari al passo con gli aumenti di produttività. Ma recentemente in tutto l’Occidente la legge è intervenuta per indebolire i sindacati. La seconda lezione è che tra il 1946 e il 1974, (i 'trenta anni gloriosi'), l’economia cresceva perché aveva creato la più grande classe media della storia. Gli stipendi degli amministratori delegati, raramente superavano quaranta volte il salario medio di un operaio. Oggi mediamente lo superano di oltre 300 volte. La terza lezione è che una tassazione progressiva sui redditi più alti è servita (e potrà ancora servire) a finanziare non solo gli investimenti pubblici a favore di migliori servizi e a tutela dei beni comuni, ma anche a creare occupazione. Perché non dobbiamo mai dimenticare che il lavoro non lo creano solo le imprese private, ma anche l’economia pubblica. E spesso della miglior qualità perché nasce orientato al servizio del bene comune.

La morale è che se vogliamo rilanciare il lavoro bisogna ripartire meglio le tasse per distribuire meglio la ricchezza, bisogna ridurre l’orario di lavoro, bisogna produrre leggi che rafforzano la posizione dei lavoratori verso gli imprenditori, e bisogna ridare allo stato la possibilità di creare centinaia di migliaia di posti di lavoro migliorando i servizi pubblici e proteggendo i beni comuni. Ma ciò ci porta a dover discutere anche di riforma della Banca centrale europea, per recuperare una sovranità monetaria socialmente orientata. E ci porta a discutere di una soluzione del debito pubblico tenendo conto dei diritti dei cittadini. Per quanto tempo vorremo continuare a versare a banche, assicurazioni, fondi pensioni, dai 70 agli 80 miliardi all’anno di soldi pubblici, invece di usarli per creare subito un milione di posti di lavoro?

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI