Lettere di gente che si è fidata e si fida. La risposta è Pasqua
sabato 11 aprile 2020

Le mie due lotte per la normalità
tra «sorella chemio» e coronavirus


Caro direttore,
da quando il coronavirus ha imposto un freno alla precedente, a volte frenetica e spesso stressante, attività di tutti noi si guarda con nostalgia a uno stile di vita definito "normale". Posso testimoniare quanto il desiderio di una vita ordinaria fosse già presente nel cuore dei malati oncologici, impegnati in una sfida di sopravvivenza contro un ospite indesiderato. Quando lo scorso anno, ricoverata d’urgenza alla Casa di cura Tortorella di Salerno, mi è stata comunicata dal dottor Carmine Napolitano, responsabile del reparto Chirurgia oncologia, la diagnosi della Tac, la mia vita fino ad allora "normale" è stata messa a dura prova dalla sofferenza. Scoprire di avere un tumore e addirittura una neoplasia rara, NET (Tumore neuro endocrino), cinque casi ogni 100 mila abitanti per anno, esige una risposta immediata di consapevolezza dei mutamenti in atto. Da quel momento il credo che professiamo in ambito comunitario ha cominciato a tornami nel cuore e sulle labbra con umiltà e affidamento totale, in un silenzio che rimbomba, tra una flebo e l’altra della chemio. San Francesco forse l’avrebbe chiamata "sorella chemio". È il tempo in cui gli uomini e le donne in camice bianco che ti sono accanto mostrano grande professionalità, ma anche sensibilità e profonda umanità. Il dottor Renato Pucciarelli, mio medico curante, mi raggiunge più volte in clinica solo per un saluto. Le attenzioni alla persona umana in ambito sanitario sono importanti, si percepiscono e danno forza. Il dottor Napolitano mi apre uno spiraglio di speranza nei contatti con l’Ospedale Maggiore di Bologna e del Policlinico S. Orsola Malpighi. All’equipe del dottor Elio Jovine, si affianca l’Ambulatorio NET diretto dal dottor Davide Campana. Il piano terapeutico è costituito da cicli e controlli non dilazionabili nel tempo. Il malato oncologico ha due nemici da combattere: uno dentro (il tumore) e l’altro fuori (il Covid-19). Lo slogan-impegno "Io resto a casa" non è valido per chi lavora e per chi, come me, segue terapie salvavita. Ai tanti problemi legati alla malattia si aggiungono i disagi da pandemia di coronavirus, con le autocertificazioni che si susseguono, i treni soppressi, la ricerca di mascherine, la distanza da tenere anche in auto, i posti di blocco che rallentano i viaggi della speranza di un ammalato. Ho imparato nella sofferenza a coltivare la virtù della pazienza, ho riscoperto il dono della vita, il valore del tempo e sento, nel clima di paura collettiva, di avere una missione speciale: seminare speranza! Buona Pasqua a tutti.
Lucia Giallorenzo

La lezione di Simone il chierichetto
su che cosa significa la Messa


Caro direttore,
ho letto la storia di Simone («#nonciarrendiamo. Simone, vestito da chierichetto per la Messa in tv» https://tinyurl.com/tknbhpy ). Gli ho scritto una lettera, che spero gli possa pervenire e che non mi dispiacerebbe se fosse letta anche dagli adulti. «Caro Simone, ti scrivo perché ho letto di come tu "partecipi" da casa tua, vestito da ministrante, alla Messa trasmessa in streaming dalla chiesa della tua parrocchia a Pinerolo, in Piemonte. Sono anch’io un "don", parroco di un piccolo paese della Calabria – Tortora, nel Cosentino – e mi sono sempre augurato ministranti come te, cioè "chierichetti", come chiamavano noi alla tua età. Quando ho visto la tua foto, mi sono detto: "No, non posso usare, per lui, per te Simone, la parola assistere, che di solito adoperiamo per chi guarda la Messa alla televisione". Il tuo gesto è molto più. È sentire la Messa, sentirti in chiesa accanto all’altare anche se sei a casa tua. Così, tu insegni una grande cosa a tutti noi grandi e anche a me – che pure sono oltre che un "don" uno che insegna "teologia", quella materia che studiano i seminaristi e tutti quelli che vogliono approfondire chi è Dio e che cosa egli vuole da noi uomini. Tu ci insegni che quando siamo impediti dall’essere in chiesa per partecipare alla Messa, come succede quasi a tutti in questi giorni, o per malattia, o perché isolati, o in carcere, o per qualsiasi altro motivo, se vogliamo davvero parteciparvi, la Messa è così grande che supera qualsiasi distanza. Sai perché ti senti partecipe della Messa celebrata dal tuo parroco, anche se sei lontano da lui? Per lo stesso motivo che noi tutti dobbiamo sentirci partecipi dell’Ultima Cena (o della Prima Messa) di Gesù. Quella che fu e rimane sempre così grande, che è oggi per noi tutti, proprio come allora: noi siamo lì con Gesù e i suoi apostoli ed egli è qui, adesso, con noi. Ti ho scritto sperando di non averti confuso le idee, per esprimere la mia ammirazione e tutta la mia gioia nel sapere che ci sono ragazzi come te, che il pericolo della epidemia può bloccare a casa, ma non può fermare ciò che sognano, ciò che credono, ciò che amano. Non può allontanare dal loro cuore Gesù, proprio Lui, il cui amore non fu fermato nemmeno dall’orribile sofferenza della morte su una croce…». Finisco con una frase grande, ma solo per spiegare meglio a me e a noi grandi ciò che ci insegnano i piccoli come Simone e tutti quelli che in questi giorni difficili continuate ad amare, come prima e più forte di prima: «Bisogna fare le piccole cose come se fossero grandi, a causa della maestà (cioè della grandezza) di Cristo che le compie in noi e che vive la nostra vita; e le grandi come se fossero piccole e facili, a causa della sua onnipotenza" (Blaise Pascal)». Grazie e buona Pasqua!
don Giovanni Mazzillo

Sono uno che si è fidato: lo strazio più atroce
la lotta con Dio, la Sua mano e la nuova speranza


Caro direttore , da 50 anni sono affezionato lettore di "Avvenire". Sono abbonato all’inserto settimanale della mia Diocesi e vado in edicola a comprarlo tutti i giorni. Per la prima volta mi sento spinto a dare questa testimonianza. In un tempo che odora di morte , come dare speranza? Per vedere la morte come "sorella" ci vuole un cristiano come san Francesco , ma lo siamo? Nonostante la mia educazione cristiana, santi genitori, medie in seminario, professionali ai Salesiani , catechista e chi più ne ha più ne metta, ho incontrato Gesù alle 21 del 23 gennaio 1984: le mie 4 del pomeriggio (Gv.1,39). Tornando a casa dal turno di lavoro, ho trovato mia figlia C., due anni appena compiuti , soffocata da D. mia moglie e sua madre. Si era ammalata del male oscuro: depressione post-partum. Ma nessuno prevedeva questo esito. Non ho avuto il tempo di pensare, aveva tentato il suicidio ed era in coma. Ho portato il cadavere di mia figlia e mia moglie, grave, all’ospedale. Sono rientrato a casa con gli agenti, e loro – fatti i rilievi – mi hanno lasciato. Qui è successo l’incredibile duello, il dialogo notturno con Chi ritenevo colpevole e la risposta che Lui era presente in mia figlia, in mia moglie e in me. Da quel momento, iniziando all’alba per avvertire genitori e suoceri anticipando i media, proseguendo nello sforzo di alleviare la sofferenza di mia moglie che ripresasi era ai domiciliari in clinica psichiatrica, riprendendo il mio lavoro, mi sono sentito accompagnato da Qualcuno che mi era al fianco. Dopo tre anni di sofferenza, D. ha ceduto: ricordandosi tutto, non ha resistito al rimorso e si è suicidata. Giurai che non mi sarei più fatto una famiglia. Invece, ho conosciuto Letizia (di nome e di fatto) e mi sono risposato. Spero che tutto questo possa servire a incoraggiare chi è nel dolore e nella sofferenza e concludo che non sono certo un santo , ma solo uno che si è fidato.
Cesare F.


«Sono uno che si è fidato». Da quando l’ho ricevuta, a fine marzo, non riesco a togliermi di mente la conclusione della lettera di Cesare F. L’ultima delle tre bellissime lettere che ho scelto di condividere con gli amici lettori in questa Pasqua 2020. Le lettere di Lucia Giallorenzo e di don Giovanni Mazzillo sono arrivate durante la Settimana Santa. E hanno preteso spazio. Lucia affronta un male che non è causato da una pandemia, ma è altrettanto feroce. Lo fa con forza e dolcezza, sino a chiamare "sorella chemio" la dura medicina che sperimenta. Lo fa testimoniando la luminosa speranza di una giovane donna che lotta e che si fida. Don Giovanni Mazzillo in quella Fiducia ha messo tutta la sua vita di parroco e la sua sapienza di teologo. Le usa per spiegarci, riprendendo la nostra piccola cronaca-parabola di Simone il chierichetto, perché la Messa non è solo un rito e perché – se ci fidiamo davvero di Cristo – ne siamo parte anche quando non possiamo "esserci" per motivata e responsabile privazione. Insieme, le parole di Lucia, di don Giovanni e di Cesare compongono un trittico, dipinto con i colori della realtà di questo tempo afflitto dalla pandemia e terribilmente esigente nel chiederci ragione della nostra speranza. Un trittico che ha cominciato a prendere forma quando ho ricevuto la lettera di Cesare F. L’ho letta e riletta, e sono rimasto senza parole. Mi ha fatto piangere e, infine, sorridere. Per questo ho deciso di riservarla a una risposta speciale, se mai avessi trovato parole giuste. Poi ho capito che la parola giusta era Pasqua. Il giorno speciale. Il giorno decisivo per chi crede in Dio e lo riconosce in Gesù. Noi cristiani siamo da più di due millenni gente che si è fidata, che continua a fidarsi e su questa fiducia basa tutto. Lui è stato crocifisso, è morto ed è risorto. Per amore, solo per amore. Se scegliamo l’Amore che Lui è, tutto ha senso e tutto è possibile.
Buona Pasqua.

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