martedì 2 luglio 2019
Uno studioso solleva dubbi sul movimento messo in moto da Greta Thunberg. Ma i sostenitori dell’impronta umana sul riscaldamento globale sembrano in maggioranza. Servono onestà e rispetto
(Ansa)

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Caro direttore,

nel pezzo su Greta Thunberg firmato da Massimo Calvi e Andrea Lavazza (20 giugno) mi ha colpito l’affermazione circa quei «soggetti che si presentano come semplici opinionisti ma in realtà difendono interessi economici consolidati e i grandi gruppi che rischiano di rimetterci dall’impegno contro il climate change ». Parole ingenerose verso chi non ritiene che tali cambiamenti siano connessi alle attività umane, com’è nel caso di Ian Clark dell’Università di Ottawa che, studiando gli isotopi nelle carote di ghiaccio antartico risalenti fino a 400mila anni fa, ha dimostrato come l’aumento dell’anidride carbonica non preceda – ripeto: non precede – bensì segua la crescita delle temperature globali. John R. Christy dell’Università dell’Alabama, premiato dalla Nasa e dall’American Meteorological Society per l’eccezionalità delle sue ricerche, afferma che i modelli utilizzati per stimare il futuro andamento del clima «sono eccessivamente sensibili ai gas serra rispetto a ciò che avviene nel mondo reale». Nel 2001 Christy fu tra gli autori principali del rapporto Ipcc. In una testimonianza resa allo U.S. House Committee on Science, Space & Technology (29 marzo 2017) dichiara: «L’Ipcc, nel rivendicare grande sicurezza circa la conoscenza dei motivi per cui il clima degli ultimi decenni stia evolvendo in questo modo, adducendo le attività umane quale causa principale, finge di non vedere come i modelli su cui tale affermazione si basa non abbiano superato un test di convalida ovvio e piuttosto facile da eseguire». E sul presunto, unanime consenso circa le responsabilità umane, aggiunge: «Il consenso è una nozione politica, non scientifica. Le voci di coloro che obiettano a varie affermazioni ed enfatizzazioni circa queste valutazioni sono in gran parte respinte piuttosto che ospitate». Così è capitato, per esempio, a Richard S. Lindzen del Mit di Boston, anch’egli tra gli autori del rapporto Ipcc 2001 ma da sempre scettico sulle implicazioni umane nel riscaldamento climatico. Quando lo intervistai, nel 2015, confermò di aver ricevuto fondi dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti perché «è uno dei maggiori finanziatori di ricerche del governo statunitense in molte aree della fisica, tra cui il clima» ma di non essere mai stato al soldo di alcuna compagnia petrolifera. Questi scienziati sono in malafede? Oppure è vero che le notizie contrastanti il mainstream di rado siano ospitate dai mezzi di comunicazione? Si ripete che la calotta groenlandese si scioglie, ma non ricordo articoli sul bilancio di massa del biennio 2017-18, positivo per 250 giga tonnellate (molta più neve al suolo di quanta ne sia scomparsa). Sul Plateau Antartico, un’area due volte e mezza l’Unione Europea, i mesi da aprile a giugno stanno segnando medie nettamente inferiori alla norma: nessuno lo scrive. Semplici discontinuità in un quadro di segno opposto? Può darsi, però un’inchiesta giornalistica ben condotta dovrebbe mirare a capire quanto di quel millantato consenso nasca negli uffici stampa anziché nei centri di ricerca. Un punto di verità l’ha espresso Jeppe Duva, caporedattore del Kristeligt Dagblad. Intervistato da Agensir (4 giugno) alla vigilia delle elezioni in Danimarca sui motivi per cui la vicenda climatica faccia così presa nella pubblica opinione, ha detto: «Nessuno ha avuto voglia di parlare di questioni più pratiche come tagli e pensioni o riforme del mercato del lavoro». Il dogma dell’emergenza climatica giustifica posizioni che, in nome dell’apocalisse da scongiurare, potrebbero avere pesanti impatti sulle nostre strutture democratiche: una riflessione in tal senso prima o poi andrà fatta.

Stefano Di Battista corrispondente Antarctic Meteorological Research Center, University of Wisconsin


Gentile dottor Di Battista,

innanzitutto, grazie per la sua attenzione al nostro articolo e per le sue annotazioni. Il riferimento agli opinionisti che difendono altri interessi economici non intendeva contestare eventuali rilievi scientifici alle ipotesi sul climate change ma porre una questione in merito ai molti tentativi di sminuire e denigrare la persona e il ruolo di Greta. Da tempo si leggono ricostruzioni tese a dimostrare i “reali interessi” della macchina mediatica che si muoverebbe dietro a Greta (la sua famiglia, i suoi editori, imprenditori interessati a trarne beneficio). Non è escluso che in tutto questo vi sia una parte di verità, ma ciò non dovrebbe portare a una negazione ideologica di quanto di buono e utile può portare l’impegno nato con il movimento Fridays for Future.

Se infatti è vero che alcuni scienziati, come quelli che Lei cita nella lettera al direttore (che l’ha a noi girata), sono scettici circa l’impatto delle attività umane sul cambiamento climatico, l’elenco di coloro che sono invece fermamente convinti di ciò, sulla base di precise evidenze, è davvero lunghissimo e non avrebbe senso riprodurlo qui. Che qualcuno dissenta anche nella scienza è un bene, ma, ci consenta, non sarà il sicuramente informato e in buona fede giornalista danese Jeppe Duva, a noi sinora sconosciuto, a esprimere la verità sul tema. Si tiene ogni anno una conferenza mondiale detta Cop, giunta alla 25esima edizione in cui si discute del cambiamento climatico e di che cosa dovrebbero fare gli esseri umani per limitare, ad esempio, il riscaldamento globale. Il 25 di giugno scorso il relatore speciale delle Nazioni Unite sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, ha denunciato come «il cambiamento climatico minacci di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà». Il climate change infatti «potrebbe riportare oltre 120 milioni di persone nel novero di chi vive in povertà entro il 2030». Intere nazioni insulari rischiano di essere sommerse dall’innalzamento dei mari e pensano a migrazioni climatiche di massa, specie vegetali e animali si estinguono a tassi accelerati, intere parti del pianeta sono minacciate da varie forme di inquinamento provocato dall’uomo...

Il rischio è quindi quello di dimenticare che gli interessi economici e industriali messi in discussione da una rivoluzione di determinati stili di vita, peraltro la stessa rivoluzione suggerita nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, sono molto più gravosi e impattanti rispetto a quanto potrebbe emergere alle spalle di Greta. La denigrazione sistematica che è stata creata da parte di alcuni ambienti, quelli che definiscono “gretini” i giovani impegnati nella difesa dell’ambiente, potrà magari servire a evitare derive massimaliste, ma può essere molto meno innocente, libera e disinteressata economicamente di quanto si voglia far credere. In ogni caso, un dibattito franco, aperto e basato sui fatti non può che aiutare ad avvinarci alla verità dei problemi e delle loro soluzioni. Un cordiale saluto.

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