mercoledì 3 aprile 2024
La crisi mediorientale, col protrarsi del conflitto fra le case e il dramma umanitario in corso, si sta avvitando su se stessa. Il ruolo degli Usa, dell'Ue e il prezzo che paga Israele
I volontari uccisi a Gaza da un raid israeliano

I volontari uccisi a Gaza da un raid israeliano - Ansa

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La Striscia di Gaza, con una densità media di seimila persone per chilometro quadrato, tre volte quella del Comune di Roma, non è un luogo in cui si può combattere una guerra che risparmi la popolazione. Lo sa bene Hamas, che ha costruito una fitta rete di tunnel sotterranei dove nascondere uomini e armi vicino alle abitazioni e ai luoghi di cura e di culto, nella convinzione che proprio per questo non sarebbero stati bersagliati in modo massiccio. E lo sa bene Israele, che ha deciso un’invasione di cui era chiaro il carattere estremamente cruento nel momento in cui si è abbassata la soglia di tolleranza di errori e danni collaterali. L’esercito e l’aviazione di Tel Aviv non sparano e bombardano senza restrizioni. Ma accettano un tasso di vittime non combattenti che alla fine risulta in violazione del diritto umanitario internazionale. Lunedì un drone ha sparato tre razzi su un convoglio dell’organizzazione World Central Kitchen, provocando la morte di sette operatori. Le due vetture portavano il simbolo della Ong che sta sfamando decine di migliaia di palestinesi sfollati e sembra avessero concordato – come è usuale – i propri spostamenti con il comando israeliano. Nessuno dubita che si sia trattato di un tragico incidente – come ha ammesso il governo –, ma ciò non toglie che fare fuoco contro chi porta cibo, disarmato e identificabile, costituisca il risultato di regole di ingaggio non orientate a tutelare i civili (adesso più vulnerabili perché gli aiuti verranno sospesi a causa del pericolo che si corre a distribuirli). Così erano stati uccisi alcuni ostaggi ebrei durante le fasi della liberazione negli scorsi mesi e così rimangono coinvolti negli scontri ogni giorno decine o centinaia di residenti, per lo più donne e bambini: il bilancio delle autorità sanitarie locali parla di 33mila vittime a ieri, l’1,5% dell’intera popolazione (l’equivalente di 900mila morti parametrato sull’Italia).

Sempre lunedì si è concluso l’assedio all’ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza, che sarebbe ora totalmente distrutto, con un bilancio di caduti non quantificabile esattamente. «Questo succede in guerra», ha commentato freddamente davanti alla strage dei cooperanti internazionali il premier Benjamin Netanyahu, oggetto di crescenti manifestazioni di protesta in patria, mentre i negoziati con Hamas in Egitto per una tregua e il rilascio dei prigionieri non registrano significativi passi avanti. Nel frattempo, sale ancor più, se possibile, la tensione tra Paesi dopo il raid missilistico che ha provocato l’uccisione di un gruppo di guardiani della rivoluzione nel consolato di Teheran a Damasco, tra cui il generale Mohamed Reza Zahedi, figura chiave nel collegamento tra l’Iran, Hezbollah e altri gruppi sciiti che tengono Israele sotto minaccia persistente. Il regime degli ayatollah ha annunciato vendette per l’operazione condannata dalla Cina e apertamente non sostenuta dagli Usa che, invece, continuano a premere affinché il negoziato proceda e vengano garantiti soccorsi alle centinaia di migliaia di palestinesi rimasti senza casa né sostentamento.

La crisi si avvita su sé stessa perché il protrarsi del conflitto in mezzo alle case peggiora il dramma umanitario in corso, ciò aliena le simpatie verso il governo di Israele e questo, a sua volta, provoca un irrigidimento della linea scelta da Netanyahu e dalla sua maggioranza. Un cessate il fuoco accompagnato dal ritorno dei rapiti è ciò che serve urgentemente, come non si stanca di invocare il Papa. Tuttavia, una soluzione di più lunga durata passa da accordi che coinvolgano i principali attori globali. E questo complesso percorso non può che fare i conti con la realtà, anche se non è quella ideale. Non si deve dimenticare che all’origine dell’invasione c’è il pogrom scatenato dai fondamentalisti di Hamas il 7 ottobre 2023, il più grave dalla nascita dello Stato israeliano, con circa 1.200 morti, ostaggi e atrocità inenarrabili. Una ferita che è anche simbolica di un progetto tutt’ora coltivato di cancellare la presenza ebraica dalla regione. L’ostilità interna a Netanyahu (il quale fa calare perfino la censura sui media internazionali come al-Jazeera) non significa che un intero popolo non sia determinato a difendersi senza cedimenti (razzi partono ancora dalla Striscia).

Il crescente isolamento che viene sperimentato, anche in conseguenza della condotta nel conflitto, rischia poi di renderlo meno disposto al dialogo e ai piani di una convivenza pacifica e ordinata con i palestinesi e i vicini arabi. Detto in altro modo, non è per nulla certo che il successore dell’attuale premier adotti una linea morbida, soprattutto se percepirà che la sicurezza di Israele dipende in modo prioritario da sé stesso, dato che i suoi alleati non sono sufficientemente determinati su questo obiettivo. È il difficile crinale che tenta di percorrere l’Amministrazione Biden, anche per ragioni di politica interna in vista delle elezioni di novembre: condurre Tel Aviv a una moderazione bellica, garantendo i palestinesi e il loro futuro, ma non facendo venire meno il sostegno alla difesa di un Paese democratico meritevole di vivere senza sottostare a un pericolo esistenziale continuo. Ed è una scelta ponderata che dovrebbe fare anche l’Unione Europea, mettendo in campo maggiore compattezza, capacità diplomatica e risolutezza, grazie alla posizione geografica nello scacchiere e al suo peso economico e militare.

Non vanno invece in questa direzione, nel loro piccolo, le decisioni di alcune università italiane, spinte da una esigua minoranza rumorosa (e a volte intollerante) a rivedere la propria collaborazione con gli atenei israeliani. Fatta salva la piena libertà di protesta e di scelta degli uni e degli altri, tagliare i ponti con i luoghi della cultura e del pensiero critico non può che rafforzare quell’arroccamento che si vuole contrastare. Contribuire a rendere meno infiammata e precaria la situazione in Medio Oriente, senza tacere i crimini e confondere colpe e responsabilità, sembra la via più lungimirante per avvicinarsi alla pace che oggi, di fronte alla tragedia dei cooperanti bombardati, sembra così lontana.

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