mercoledì 12 luglio 2023
"E' stato mio marito a spingermi ad accettare l'incarico", spiega la manager, "Oggi, in Italia, non è cosi scontato. La leadership gentile, quella al femminile, funziona anche in un ambiente maschile"
Annamaria Barrile, 48 anni, è la prima donna a dirigere Confagricoltura

Annamaria Barrile, 48 anni, è la prima donna a dirigere Confagricoltura

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Siciliana, 48 anni, due figli, un passato da manager in aziende prestigiose, Annamaria Barrile è la prima donna, in un secolo di storia, a ricoprire il ruolo di direttore generale di Confagricoltura, la più antica organizzazione di settore, che rappresenta i due terzi delle imprese agricole italiane, e che oggi e domani si riunirà a Roma per l’assemblea generale. Come molte donne, è stata vittima della sindrome “dell’impostore” ma poi ha portato il suo stile, improntato su una leadership “gentile,” in un’organizzazione ancora quasi tutta maschile, impegnandosi per far crescere nuove leve interne e imprenditrici sul territorio, perché «lavorare in agricoltura non è un mestiere di serie B».

Lei è la prima donna a ricoprire il ruolo di direttore generale di Confagricoltura. Ci racconta com’è andata? Ero arrivata in Confagricoltura da appena tre anni per occuparmi delle relazioni istituzionali, alle spalle avevo 20 anni di esperienza in aziende private nel settore dell’aerospazio, della navigazione e della difesa, da Finmeccanica ad Airbus. È stata ed è un’esperienza unica per me. Dopo 100 anni di storia hanno designato un direttore generale, per di più donna, che arrivava da un contesto completamente diverso. In me hanno visto la possibilità di traghettare l’organizzazione verso un approccio al passo con le nostre imprese, una scommessa che per me è stata una grande sorpresa.

Per quali motivi non si aspettava questa nomina? Non mi sentivo in corsa per questo ruolo, mi consideravo fuori dai giochi. All’inizio ho avuto un po’ di timore. Sapevo che sarebbe stata un’esperienza totalizzante: ho due bambini piccoli e le difficoltà di conciliazione mi spaventavano. Sapevo – e poi è andata esattamente così – che non sarei più potuta andare a prenderli a scuola. Ma avvertivo anche un senso di responsabilità rispetto al sistema sindacale e associativo che non conoscevo.

La paura di non essere all’altezza è una barriera invisibile che le donne non riescono ancora a superare? Spesso è così. Siamo vittime di questa “sindrome dell’impostore” che ci spinge a pensare sempre di non essere all’altezza. Prima di accettare l’incarico mi ero confrontata con un’amica e lei mi aveva parlato di questa teoria che in effetti in Italia è, secondo me, molto radicata. È stato mio marito a spingermi ad accettare l’incarico, a rassicurarmi dicendo che si sarebbe assunto maggiore impegno sul fronte della gestione dei figli. Oggi in Italia non è una cosa scontata, non tutte le donne hanno questa fortuna. Lui mi ha detto con molta semplicità che per tanti anni ero stata io la figura di accudimento mentre lui faceva carriera, e che era arrivato il momento di incrociare i ruoli...

A sceglierla sono stati dirigenti uomini o c’è stata un’alleanza di genere? E perché preferisce essere chiamata direttore e non direttrice? La giunta che mi ha scelto è composta da 11 uomini e una sola donna: quello agricolo, indubbiamente, è ancora un mondo prevalentemente maschile. L’importante è cosa si fa e come lo si fa. Potremmo dire che “direttore” mi sembra una parola che, finendo con la “e”, possa considerarsi neutra e suona bene, tutto qui.

Dicevamo che Confagricoltura è un’organizzazione prevalentemente maschile. La leadership al femminile, quindi, è ancora un miraggio? Siamo un’organizzazione che è un vero e proprio sistema in cui lavorano 2.700 persone, tra Confagricoltura nazionale, federazioni regionali e unioni provinciali. Le donne continuano ad aumentare nell’ossatura della struttura, composta da persone in gamba, un vero e proprio capitale umano. Continua a crescere anche la presenza femminile ai vertici: oltre ai presidenti del Molise, di Alessandria e Asti, di Pavia e di Cosenza, numerosi sono i direttori regionali e provinciali donne. Se consideriamo poi le imprese femminili, l’agricoltura non è indietro, anzi. Le attività economiche in rosa, in Italia, sono circa il 21%, mentre nel nostro settore sono circa il 30%. Occorre valorizzare adeguatamente queste imprese per aprire la strada a un futuro più inclusivo e sostenibile dal punto di vista produttivo, sociale e umano. Un po’ per volta le nuove leve stanno salendo i gradini dell’organizzazione. Vedo molto entusiasmo: le giovani mi dicono di essere felici di avere un direttore generale donna; io raccomando loro di lavorare con lucidità e fermezza, ma anche con gentilezza e accoglienza... da donne, insomma.

Esiste una leadership “femminile”? E lei come la esercita? Ho capito che la leadership gentile, quella interpretata dalle donne, funziona anche in un ambiente maschile. L’importante è costruire la propria autorevolezza per garantire omogeneità d’azione. Credo che lo stile femminile, quello con cui da sempre noi donne governiamo la famiglia, sapendo ascoltare ma poi decidendo, rappresenti la via migliore. A volte mi rendo conto che, quando sono un po’ più dura, ottengo risultati più rapidamente, ma preferisco comunque essere gentile. In Confagricoltura ci sono regole simili a quelle della politica; la femminilità, quindi, va intesa come un mix di empatia e decisionismo.

Le donne sono tante anche nel settore agricolo: quali caratteristiche hanno? Le donne imprenditrici agricole sono molte di più di quanto si creda: 256mila, il 28,2% del totale; le riuniamo in Confagricoltura donna. Tra dirigenti, quadri e impiegate sono il 47%, mentre tra gli operai agricoli si fermano al 32%, e si tratta spesso di stagionali. Una volta le imprenditrici erano quelle che innovavano di più, oggi purtroppo avviene il contrario. Le donne hanno un reddito netto più basso rispetto agli uomini e c’è una differenza di trattamento enorme sull’accesso al credito. Eppure, innovazione, sostenibilità e resilienza, tutte caratteristiche femminili, sono una componente fondamentale per costruire un futuro green. Nel Pnrr sono previsti interventi trasversali per bilanciare le opportunità: si tratta di un gap che si interseca con il problema delle aree rurali che è stato, in parte, capito durante il Covid, ma poi non ci sono state politiche adeguate. I due terzi del territorio italiano è agricolo, ma l’assenza di servizi spinge le donne ai margini. Le imprenditrici agricole sono madri: se la loro azienda è in mezzo al nulla, ad esempio, non sanno dove lasciare i bambini. A Roma, che è il più grande Comune agricolo d’Italia, le imprenditrici sono numerose, a Bolzano c’è l’agri-nido. Occorre instaurare un circolo virtuoso.

Dati alla mano, le imprese agricole al femminile sono più numerose al Sud. Come mai? Purtroppo, c’è ancora un retaggio di alcune pratiche: le donne erano spesso prestanome di aziende, che in realtà erano dei mariti, un fenomeno per fortuna in netta diminuzione. Ci sono storie meravigliose di giovani che, dopo una laurea e un’esperienza all’estero, hanno preso in mano le aziende di famiglia rendendole competitive e internazionali. In tutt’Italia crescono anche le donne impegnate nelle società di capitali e di persone che, nella fascia di età che va da 18 a 29 anni, raggiungono il 33,76%, a dimostrazione dell’acquisita consapevolezza dell’importanza di costruire reti al femminile. Dieci anni fa rappresentavano il 14% del totale.

C’è un retaggio culturale che disincentiva le giovani (e i giovani) ad avvicinarsi a questo settore? Da direttore generale giro tantissimo per l’Italia e devo dire che l’agricoltura crea un senso di comunità e di responsabilità: lavorare nel settore primario è una cosa di cui andare fieri. Le difficoltà principali, più che culturali, sono legate a problemi concreti: prime fra tutte, il difficile accesso alla terra e al credito, veri e propri ostacoli per l’insediamento dei giovani in agricoltura. Il censimento dell’agricoltura ha rilevato che, in dieci anni, i giovani sono diminuiti. Quelli rimasti hanno aziende più grandi e si distinguono per innovazione, digitalizzazione dei processi, titoli di studio avanzati e produttività. Qualcosa è stato fatto, ma occorre impegnarsi di più: occorrono nuovi giovani per garantire un futuro sostenibile al settore.

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