La forza delle (vere) donne di Calabria contro i feroci messaggi di 'ndrangheta
venerdì 13 aprile 2018

Caro direttore,
sono gravi i fatti che stanno toccando il territorio di Vibo Valentia: il danneggiamento alla stele di Filippo Ceravolo, giovane vittima innocente della criminalità organizzata, ucciso “per sbaglio” a Soriano Calabro nel 2012; gli arresti nella zona delle preserre vibonesi di alcune donne (mamme e mogli) che stavano assumendo un ruolo di primo piano all’interno del “locale”, quasi diventando esse stesse il braccio armato delle cosche; e l’autobomba nel cuore del feudo criminale della famiglia Mancuso, a Limbadi, hanno inevitabilmente scosso l’opinione pubblica, in terra di Calabria e oltre i confini regionali. E proprio in queste ore alcuni commenti – del tipo “Mi vergogno di essere calabrese...” – condivisi anche attraverso i canali digitali dei social network spingono a rivendicare la nostra calabresità e a ristabilire i confini dell’azione che il movimento antimafia, Libera, i familiari delle vittime innocenti e importanti settori della Chiesa calabrese, stanno sviluppando nella nostra terra. Bisogna partire dall’evidenza dei fatti. Di “altri” fatti.

E io voglio riprendere le parole che la mamma del giovane, Matteo Vinci, che ha perso la vita nella deflagrazione di Limbadi, ha consegnato alle tv nelle ore successive al drammatico fatto. Vedo e rivedo quell’intervista, e dico a me stesso e a noi tutti, che dobbiamo amplificare l’orgoglio di sentirci e dirci calabresi, anche con le parole, miti, umili e semplici e con gli occhi e con il dolore di quella madre. Parole pronunziate a voce bassa e persino flebile, ma che vanno oltre la deflagrazione, oltre la bomba, oltre il botto... . Non conoscevo quella mamma. L’ho vista per la prima volta in tv e poi, mercoledì scorso, l’ho incontrata di persona. Sono stato assieme ad altri amici di “Libera Vibo Valentia” a casa sua. Dove ho trovato una donna forte, determinata. «Non ci arrenderemo mai... ». «Continueremo a lottare per la memoria di Matteo... ».

In mente mi sono venuti i volti, di tutte le altre mamme, mogli e figlie, che ho incontrato in questi anni. Volti di donna, familiari di vittime innocenti della criminalità organizzata, che rispetto a quelle “altre” donne, ora arrestate, che incitano alla violenza all’odio, alla vendetta, incitano invece alla vita, a un sano orgoglio, a una memoria viva. Assieme alla mamma di Matteo, ho incontrato anche la ragazza con la quale il giovane si doveva sposare tra qualche mese, una ragazza argentina. Due donne sole. In mente mi sono tornate le immagini di casa mia. La casa dalla quale mio fratello, Pino, anche lui vittima innocente della criminalità organizzata, sparì il 15 gennaio del 1994, sequestrato e ucciso dalla ’ndrangheta in quello stesso giorno, anche se i suoi resti furono ritrovati solo il 21 marzo. Ricordo casa mia piena di gente. Un via vai di amici, parenti, conoscenti, e anche di persone che non conoscevamo. Ieri, invece, a Limbadi la casa della mamma di Matteo era vuota, perché nessuno è andato offrire le proprie condoglianze alle due donne. Ecco il “peso” della bomba, la forza intimidatrice del botto.

E davanti a quella casa vuota le domande non danno pace... . Ma io so che la mamma di Limbadi ci insegna ancora di più, ancora una volta che cosa significano resistenza, resilienza e speranza. E ci dice che si possono comunicare e, in concreto, vivere. Nella memoria forte e fedele di chi è stato ucciso, in un impegno che deve continuare tracciando solchi di giustizia e di civiltà, seminando partecipazione e responsabilità. Quella bomba ha voluto essere un “messaggio”, anche alle dodicimila persone che lo scorso 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della criminalità organizzata, hanno camminato per le strade di Vibo Valentia. «A casa loro», come qualcuno mi disse. E io replicai: «No, a casa nostra!». Casa nostra, sì, casa nostra. Terra nostra. Non loro. Quelle dodicimila persone hanno camminato, letto il lungo elenco di vittime innocenti (più di 950 nomi), incrociato lo sguardo di tanti familiari e hanno mandato, tutte insieme, un messaggio di giusto e vero orgoglio calabrese. Proprio come le donne che ci danno l’esempio: la mamma di Matteo, le mamme, le mogli, le figlie di tutte le vittime innocenti delle mafie. Sentiamo il valore di questo dono. Il loro dolore e la loro speranza sono primavera, quella primavera che ricomincia ogni anno il 21 marzo, e che deve abitare ogni giorno della nostra vita.

Matteo Luzza

Le sono profondamente grato, caro amico, per la passione cristiana e civile di questa testimonianza e per la grande schiettezza con cui l’ha scritta e consegnata ad “Avvenire”. La schiettezza, intendo, che le fa raccontare senza giri di parole sia la crescente, convinta e piena reazione alla sfida della ’ndrangheta sia il vuoto di solidarietà e di coraggio che segnano come opposte cicatrici il volto della sua gente. Lei, che porta e porterà sempre nell’anima le cicatrici della ferocia malavitosa contro suo fratello Pino, sa molto bene di che cosa parla e perché certe cose vanno dette in modo chiaro e forte. Grazie e ancora grazie. Ma soprattutto, non se ne stupirà, ne sono certo, voglio dirle grazie per averci ricordato la forza buona e generatrice – generatrice anche di una “primavera” di giustizia, di legalità e di amicizia – delle donne di Calabria. “Altre” donne di Calabria, dice lei, contrapponendole a quelle che purtroppo ottengono titoli e spazio nelle cronache di troppi giornali per la loro scelta di malavita. “Vere” donne di Calabria, dico io, capaci di avere voce, fermezza e amore per resistere all’assedio della prepotenza e della morte e per mantenere salda la memoria dei propri cari e la speranza che, con fatica e tenacia, costruisce il domani più degno.

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