La Cina che si impunta sul tweet ci chiede di vigilare per i diritti
mercoledì 9 ottobre 2019

Chi ha paura di Daryl Morey? I vertici di un Paese che conta un miliardo e 400 milioni di abitanti e ha la forza politica ed economica da super-potenza mondiale potrebbero non muovere un sopracciglio di fronte al tweet del general manager degli Houston Rockets, una delle trenta squadre di basket professionistiche statunitensi.

Eppure, quel cinguettio in favore delle proteste dei giovani di Hong Kong, 'stonato' alle sensibili orecchie della nomenklatura cinese, ha scatenato un caso che non si può definire diplomatico (perché non ha interessato ufficialmente le istituzioni), ma che è altrettanto rilevante e costituisce il perfetto indicatore di un sistema tanto efficiente quanto distante dalla nostra sensibilità in tema di libertà e diritti. E dà anche la misura delle difficoltà a rapportarci efficacemente con l’Impero di mezzo. Schierarsi con i dimostranti può essere il parere non richiesto di un uomo di sport e di affari che ha altre priorità professionali, niente di così significativo, tuttavia, nell’America del presidente twittatore inesauribile, che via social media dice tutto e il contrario di tutto con linguaggio esplicito e ruvido.

A Pechino la situazione è diversa: tutto si capta e niente si sottovaluta. La pallacanestro professionistica è un veicolo di penetrazione americana nella cultura sportiva e popolare della nazione, non si può permettere cha sia contaminata da messaggi 'sovversivi'. Così è scattata la ritorsione: stop alla trasmissione sulla tv statale di due partite di pre-stagione della Nba. Un messaggio chiaro a non ripetere l’errore. Dall’altra parte, il mondo del basket Usa ha proferito scuse immediate, dichiarazioni di amicizia alla Cina grande Paese, promesse di non interferenza futura.

Va salvaguardato il business in un mercato enorme di diritti televisivi e vendita di maglie e accessori. Poi una almeno parziale resipiscenza del numero uno della Lega pallacanestro, sollecitata anche dagli interventi di alcuni candidati alla Casa Bianca: non si deve limitare la libertà di parola, non la si può subordinare agli interessi economici.

Abituati agli eccessi online, l’episodio ci sarebbe sembrato marginale. Non lo è per una nazione che sta riunendo tutte le banche dati disponibili – tribunali e polizia, fisco, siti commerciali e social network – facendo sì che ogni cittadino possa essere valutato secondo quello che è stato definito 'Social Credit System', un sistema di reputazione, che assegnerà a ciascuno un punteggio dipendente dalla sua condotta complessiva per quanto rilevabile dalle informazioni disponibili. Lo scopo dichiarato è quello di rafforzare il rispetto delle regole e la stabilità sociale.

Quando sarà disponibile un singolo punteggio per 'utente', un datore di lavoro potrebbe usarlo per stilare una graduatoria degli aspiranti al posto da occupare. Ma già oggi al figlio di un cittadino che non ha restituito un prestito è stata negata l’iscrizione a un’università di Pechino, per la quale aveva superato l’esame di ammissione. E 'liste nere' di chi ha comportamenti definiti anti-sociali fanno sì che alle 'persone inaffidabili' sia rallentata la connessione Internet, vietato l’accesso a certi locali pubblici o diminuiti i punteggi per l’assunzione nel settore pubblico. Retaggi confuciani e moderna tecnologia, prevalenza della comunità rispetto all’individuo e abnegazione personale hanno reso la Cina comunista un 'Modello', come ben racconta il sociologo Daniel A. Bell in un discusso libro il cui sottotitolo è 'meritocrazia politica e limiti della democrazia'.

La tesi (troppo compiacente?) è che il gigante asiatico cresce e funziona secondo criteri che selezionano e premiano il merito senza inseguire il mito liberal-democratico assai meno efficiente. Bisogna allora tacere di Tibet, Taiwan e oggi Hong Kong per non urtare la suscettibilità di Pechino e non subire le sue reazioni? E magari copiare qualche sua conquista? Certamente no, verrebbe da dire. Ma la politica, gli affari e anche le battaglie per i diritti umani non si conducono sempre e necessariamente con il muro contro muro. L’ha insegnato la pazienza con cui la Santa Sede ha negoziato e ottenuto uno storico accordo che riguarda i fedeli cattolici, minoranza ancora oggetto di restrizioni ma meno di altri gruppi etnici o religiosi (si veda la vicenda degli uighuri alla ribalta in questi giorni). Il caso della pallacanestro, cui si è aggiunta la satira del cartone animato South Park, però deve renderci avvertiti che ci vuole attenzione costante e anche una risposta coerente a fronte di un Paese guidato da una leadership compatta e determinata non solo nel difendere ma anche nell’espandere il proprio modello.

Le scaramucce su un tweet scolorano di fronte al progetto della Via della Seta, aderire al quale, come preliminarmente ha fatto l’Italia, ha sicuramente maggiori implicazioni e ricadute. In definitiva, possiamo e dobbiamo perdere qualche commessa per difendere le nostre libertà fondamentali e cercare di garantirle nel lungo periodo anche ai cinesi che vi aspirano. Con intelligenza, magari persino con un tweet, senza però dimenticare la complessità delle culture e la posta complessiva che è in gioco. Illudere i giovani di Hong Kong e poi lasciarli soli in una Tienanmen bis sarebbe imperdonabile.

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