L'Iran e l'afonia che non aiuta
venerdì 5 gennaio 2024

È il più sanguinoso massacro dalla fondazione della Repubblica islamica dell’Iran quello avvenuto due giorni fa a Kerman. E uno dei più vergognosi, dato che ha falciato decine di donne e uomini mentre stavano commemorando il generale iraniano, Qassem Suleymani, grande “eroe” del regime, ucciso quattro anni fa da un drone americano. Un attentato dai mandanti ancora non chiari, se non per una prima rivendicazione da parte di Daesh, che si somma all’uccisione per mano israeliana del numero due politico di Hamas a Beirut, Saleh al-Arouri, l’elemento di contatto con Hezbollah, e prima ancora del generale dei pasdaran iraniano Razi Mousavi, colpito da un raid dell’aviazione dello Stato ebraico a Damasco. Né va dimenticata la reazione militare statunitense contro gli Houthi sciiti, i quali dalle coste dello Yemen, minacciano le rotte commerciali verso il canale di Suez, la vena giugulare dei corridoi marittimi fra Asia e Europa.
Insomma, l’asse della resistenza forgiato da Teheran ha subito duri colpi in questi giorni. La furia di Israele, dopo i terribili eccidi del 7 ottobre, non si sta limitando ai soli bombardamenti indiscriminati contro Gaza, che sono costati la vita a più di ventimila civili, fra cui migliaia di bambini. E il braccio di Tel Aviv è notoriamente lungo e quasi infallibile. Sarebbe certo gravissimo, e prima ancora inaccettabile, se nella strage di Kerman vi fosse – anche solo indirettamente – la mano israeliana, come affermano le autorità iraniane. Tanto più che finora le azioni compiute dal Mossad in Iran sono sempre state chirurgicamente mirate, mentre quanto successo sembra più in linea con la violenza dei vari gruppi di opposizione armata al regime, sia di matrice religiosa (come gruppi sunniti radicali o jihadisti), sia etnica, dato che sono diverse le minoranze sempre più insofferenti del centralismo iraniano.
Ma se anche verrà confermata la matrice jihadista di questa strage, risulta evidente come cresca il rischio che la regione precipiti via via verso un conflitto privo di ogni regola e sempre più generalizzato, con il moltiplicarsi di focolai di crisi e di attori coinvolti. E ciò nonostante la linea tutto sommato pragmatica del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Questi, pur sostenendo Hamas e costringendo Israele – con un limitato lancio di razzi dal Libano – a dividere le proprie forze le frontiere a Nord e a Sud, ha finora evitato un pieno coinvolgimento nel conflitto, dato che la guerra aperta ora non gli conviene.
E tuttavia, quando lo scenario geopolitico regionale si infiamma sempre più, lo scivolamento verso il peggio è non solo sempre possibile, ma spesso inevitabile. Tanto più che l’ultra-destra israeliana fomenta le violenze contro i palestinesi in Cisgiordania e parla apertamente di pulizia etnica, con ventilate deportazioni di palestinesi. Discorsi che hanno provocato la dura reazione dell’Amministrazione Biden, sempre più in difficoltà nella sua opera di mediazione e apparentemente intrappolata fra lo storico pieno sostegno allo Stato ebraico e il fastidio per gli eccessi del governo di Bibi Netanyahu. In un quadro così pericoloso, stupisce la scarsa volontà di alcuni attori nel sostenere e rafforzare il tentativo di Washington di arrivare a una tregua duratura. Al di là di Qatar ed Egitto, nella regione si sta facendo troppo poco: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, che si illudevano di essere i veri protagonisti della geopolitica del mondo arabo, sembrano afoni. La loro vicinanza a Israele non si traduce in un’azione politica credibile per attenuare, se non fermare, il conflitto. Una inazione che peserà in futuro sulla loro credibilità internazionale.
Ma, ancora una volta, l’attore di cui sconfortantemente non si sente la voce è l’Unione Europa. Il procedere in ordine sparso è una meschina tradizione dei Paesi europei; ma è peggio che vergognoso farlo ora, bloccando di fatto un’azione comune forte dell’Unione per cercare di fermare un conflitto sanguinosissimo alle nostre porte, che lacera luoghi così importanti per la nostra identità storica. Ricercare incessantemente ogni sentiero che conduca alla pace, che non significa essere imbelli o passivi dinanzi alla violenza, deve invece diventare l’architrave della politica estera europea. Senza lasciare campo libero a chi soffia sul fuoco delle violenze. Finendo spesso bruciato a sua volta, come dimostrano i fatti di questi giorni.

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