giovedì 12 marzo 2020
Diario e «passeggiate torinesi» di un vescovo nei giorni dell'emergenza da coronavirus
In preghiera per la città vuota pensando alla casa sulla roccia

Ansa

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Caro direttore,
ho disdetto anch’io gran parte dei miei impegni ufficiali. Udienze con strette di mano, incontri calorosi con la gente, abbracci… Prima vedevo – ma non ho mai fatto conti precisi! – un centinaio di persone al giorno, sempre diverse: alla sera nelle parrocchie, al mattino in Episcopio, al pomeriggio in Curia... Adesso sfoglio il vuoto delle pagine d’agenda, dove i punti fermi rimangono le Messe in casa, celebrate con e per la famiglia religiosa che vive con me. (Rimane anche molto altro, perché il lavoro continua: ma si svolge con modalità completamente diverse). Insieme con gli altri vescovi d’Italia ho aderito, con piena e sofferta disponibi-lità, alle indicazioni della Conferenza episcopale italiana che ha accolto e recepito le disposizioni di emergenza del Governo. Il motivo profondo non sta solo nel diventare, come chiedeva don Bosco, «onesti cittadini».

Ma nel cercare di essere «buoni cristiani»: il mistero che celebriamo ogni giorno è talmente grande e bello che, pur accettando questo tempo di 'intervallo', cresce il desiderio di tornare a celebrare per il nostro popolo, tutti insieme. Un punto che mi duole riguarda anche i funerali perché è un momento di dolore per tante famiglie in cui la Chiesa è sempre stata presente con la massima cura umana e spirituale. È prevista una benedizione alla salma ma non è la stessa cosa. È il momento non tanto delle parole, ma di quella prossimità del cuore che Gesù ci insegna di fronte alla sepoltura del giovane figlio della vedova di Naim o dell’amico Lazzaro. I l contagio mi ha permesso possibilità per le quali il tempo prima mancava. Ho fatto, la settimana scorsa (sì, con tutte le precauzioni del caso), qualche passeggiata nella mia città. Sono uscito seguendo le tracce di un libro, uno dei tanti su Torino che avevo raccolto in questi anni: 'L’enigma del cavalier Agnelli'. Durante l’occupazione delle fabbriche, nel «biennio rosso» 1919-20, Giovanni Agnelli – il fondatore – è disoccupato. Non può entrare nei suoi stabilimenti, medita di scappare e trasferirsi in Belgio. Ma intanto si mette a girare per la sua città. Va a cercare le fabbriche, vuote di operai e di lavoro; scopre strade e prospet- tive che gli erano sempre sfuggite... Giovanni Agnelli decide di rimanere; e anch’io mi dicevo che noi, i torinesi, siamo ancora qui, e non vogliamo scappare perché amiamo la nostra città. Vogliamo una città che sia all’altezza non solo dei nostri bisogni ma anche delle attese, delle aspirazioni di vita migliore che tanti dei suoi cittadini portano dentro il cuore.

Nel tempo fra la mia nomina ad arcivescovo di Torino e l’ingresso solenne mi ero fatto accompagnare da un prete a conoscere la città e la diocesi. Gira- vamo in automobile, e lui mi illustrava i luoghi, e chi ci abitava. Pensavo che avrei dovuto conoscere gente nuova, e portare a tutti una parola di incoraggiamento, di vicinanza, di speranza. Anche per questo rimasi di sale quando, durante una Visita pastorale, un parroco mi chiese, di fronte alla sua gente riunita: «Eccellenza, ma lei chi è? Noi preghiamo per lei tutti i giorni e tutte le settimane; teniamo il suo ritratto appeso in sacrestia e in ufficio parrocchiale. Quando viene tra noi ci prepariamo ad accoglierla con tanti momenti di festa perché siamo davvero contenti di ricevere il vescovo, quello che ci fa vedere Gesù Cristo in mezzo a noi. Abbiamo bisogno di frequentarla e vederla di persona più spesso possibile. Caro Cesare, non ci abbandoni a noi stessi».

Cesare Nosiglia

Cesare Nosiglia - .

Ci ripenso sovente, e tanto più in questi giorni, obbligati alla lontananza dalla gente. Il male vero del contagio colpisce soprattutto noi. I soldi continuano a girare, anche se le Borse vanno un po’ peggio di prima; i servizi essenziali continuano, più o meno, a funzionare. Internet ci inventa ogni minuto soluzioni per continuare a fare scuola, giocare scambiarci messaggi e informazioni, sorridere sul virus nei milioni di video e vignette che riempiono ancor più la rete. Ma noi dobbiamo smettere di vederci, di incontrarci. Noi, la Chiesa. La Chiesa sono le persone, le persone che si accompagnano, che si lasciano «contagiare» da una grande speranza comune. Ecco perché, mi dico, non possiamo assolutamente smettere di pregare; ecco perché ci sono maestre, in questo nostro mondo, le esperienze delle monache e dei monaci di clausura e dei contemplativi. Siamo abi- tuati a vivere in una metà scarsa di «questo nostro mondo»: e non sempre la nostra è la parte migliore, come ricorda il Signore stesso all’affannata Marta: «Tu ti agiti e preoccupi per molte cose ma di una sola c’è bisogno. Maria che sta seduta ai miei piedi e mi ascolta ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta» (Luca 10, 38-42). Il contagio, poi, mi sta insegnando non solo a dubitare. Abbiamo imparato a nostre spese quanto pesino, anche nelle vita vera, le notizie false di cui siamo spinti a nutrirci. Ora l’incertezza di informazioni sul contagio moltiplica queste sensazioni di paura, illusione e disillusione. Ci costringe (finalmente, si potrebbe dire) a essere molto più attenti nel verificare i messaggi che ci raggiungono, nel controllare i nostri movimenti e la nostra bocca... Dopo 70 anni di «pace» in Italia e in Europa, eccoci tornati a vivere col nemico.

Ma non si tratta solo di dubitare. Il contagio mi insegna a non confidare troppo su quanto il mondo moderno con la sua potenza in tutti i campi mi propone. Ora c’è da affrontare qualcosa di molto più radicale e crudele, che mi mostra senza pietà la differenza tra la casa sulla roccia di cui ci parla Gesù nel Vangelo, fondata sulla sua parola, e le tante costruzioni di sabbia di cui ci riempiamo gli occhi, la bocca, il cuore ogni giorno. Anche per questo ho detto e scritto alla mia gente di non aver paura a invocare il soccorso dei santi e soprattutto della Vergine Maria, lei che «molte fiate / liberamente al dimandar precorre» (Dante, Paradiso XXXIII). Tante volte in passato, nei momenti di grande emergenza Torino si è legata con voti solenni – pur senza rinunciare a tutto quanto era umanamente possibile fare per salvarsi. Non si tratta solo di recuperare le 'certezze' della salute fisica ma di capire dove sta il nostro vero bene. E questa è una domanda che ci poniamo ogni giorno della vita, con e senza il contagio.

Arcivescovo di Torino, Vescovo di Susa

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