In Cina tra propaganda e censura è venuta meno la voglia di cinema
mercoledì 15 gennaio 2025

C’era una volta "Avengers: Endgame", ennesima variazione sulle gesta degli inossidabili supereroi a stelle e strisce. Uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel 2019, il film diretto da Anthony e Joe Russo e targato Marvel Studios ha conquistato un record: è il film americano che più ha incassato nella storia in Cina, racimolando un "malloppo" di 4,2 miliardi di yuan (592 milioni di dollari). Da allora la presenza nelle sale del gigante asiatico di pellicole "made in Usa" si è progressivamente assottigliata. Nel 2012, sette dei dieci film più visti in Cina erano targati Hollywood. Più di un decennio dopo, il quadro era decisamente cambiato. Nel 2023, nessun film a stelle e strisce si è classificato tra i dieci film con maggiori incassi, nonostante attesissimi sequel come "Mission: Impossible", "Fast & Furious" e "Spider-Man". E quest’anno solo "Godzilla x Kong: The New Empire" è entrato nella top ten cinese, classificandosi all'ottavo posto.

Meno film meno incassi, meno incassi meno film: è un gatto che si morde la coda. Hollywood, ha scritto il sito MovieGuide, "ha completamente abbandonato la sua posizione un tempo rialzista sulla Cina. E non senza ragione: nei primi 11 mesi di quest'anno, i guadagni per i film statunitensi sono stati pari a 797,3 milioni di dollari, somma comunque significativa ma in calo del 68 percento rispetto ai 2,5 miliardi di dollari dello stesso periodo del 2019". Il resto lo ha fatto Pechino. Durante la pandemia di Covid-19, gli enti di regolamentazione cinematografica hanno ridotto drasticamente il numero di uscite a stelle e strisce nel Paese. Un sussulto si è registrato nel 2023, mentre nel 2024 sono sbarcati nelle sale cinesi solo 29 titoli statunitensi, rispetto ai 35 dell'anno scorso. Sulla anemica presenza del cinema americano, pesa anche il peggioramento delle relazioni geopolitiche tra Washington e Pechino. Inevitabile la caduta di appeal dei prodotti di intrattenimento statunitensi.

Il declino delle pellicole Usa nelle sale cinesi è stato rimpiazzato da prodotti "indigeni"? Si e no. Sì, perché le produzioni nazionali hanno preso il sopravvento sui film stranieri. No, perché anche il cinema cinese ha subito un forte ridimensionamento in termini di incassi. "Il botteghino, un tempo in continua espansione, ha iniziato a crollare", ha ammesso The Hollywood Reporter. I numeri catturano il tracollo della macchina dei sogni cinese, nonostante le 86mila sale cinematografiche disseminate nel Paese. Come riportato dal Global Times, voce ufficiale della nomenclatura comunista, il numero di biglietti venduti nel 2024 ha registrato un calo del 28 per cento, raggiungendo la cifra di 940 milioni.

Non solo si sono "ridotti" gli spettatori. È cambiata l’età media di chi frequenta i cinema. Che letta al rovescio dice anche un’altra cosa: i giovani disertano la sale. "L'età media degli spettatori cinesi è passata da 22 a 26 anni", ha constatato il noto regista Jia Zhangke. "Le nostre giovani generazioni non vanno più al cinema. Dobbiamo chiederci: cosa è successo e dove sono finite queste persone?", ha aggiunto. Quali sono i motivi della disaffezione dei cinesi verso la settima arte? Dietro il calo di spettatori, preme un mix di cause. La prima: la spaccatura generazionale. "La popolazione più adulta e gli stessi cineasti si sono adattati, nell'ultimo decennio, al rafforzamento dei controlli della macchina della propaganda durante gli anni della presidenza di Xi Jinping", dice ad Avvenire Lawrence C. Reardon, professore di Scienza politica e affari internazionali all’Università del New Hampshire. "Non così i giovani: il problema principale del cinema cinese è l'impossibilità per le ultime generazioni di permettersi un biglietto del cinema, oltre al fatto che i giovani, ormai, dirottano la loro attenzione su altri media". La popolarità dei video e dei giochi per dispositivi mobili, così come la continua ascesa di piattaforme video di breve durata come Douyin, Bilibili, Xiaohongshu, ha contribuito a indebolire l'attrattiva del cinema, dirottando e "disseminando" altrove i giovani.

Dopo decenni di tumultuosa crescita, l'economia del gigante asiatico sembra aver smarrito la sua forza propulsiva, arenandosi nella crisi più significativa in oltre un decennio, zavorrata dal crollo del mercato immobiliare e rallentata dalla caduta di fiducia dei consumatori. E le previsioni per il futuro che non sono così rosee. "La Cina sta affrontando alcuni venti contrari economici - spiega ad Avvenire Stan Rosen, docente di Scienza politica alla University of Southern California - quindi era inevitabile che il consumo culturale, relativamente costoso, subisse un contraccolpo. La disoccupazione dei giovani cinesi è molto alta, tanto che il governo ha smesso di pubblicare statistiche dopo che il livello ha raggiunto oltre il 21%. Poi le autorità hanno cambiato il metodo della misurazione della disoccupazione, quindi i numeri sono magicamente scesi. Ma la situazione resta difficile, e l’accesso al lavoro difficoltosa, in particolare per i neolaureati". C’è infine un altro fattore che incide sulla crisi del cinema cinese: la censura che il Partito comunista esercita su ogni aspetto della vita culturale (e non solo) del Paese. Una sorveglianza capillare, continua, ossessiva che finisce per sterilizzare ogni forma di creatività.

I risultati? Da una parte, gli schermi sono "sequestrati" da narrazioni enfatiche e stereotipate, allineate con la visione del Partito comunista, appesantite da vere e proprie "catene" ideologiche. Dall’altra, e connessa alla prima, la crescente (e inevitabile) stanchezza degli spettatori, provocata da temi straripanti, ripetitivi e autocelebrativi. "Il governo cinese - spiega ad Avvenire la politologa Katherine Chu - continua a esercitare un forte controllo sulle industrie culturali, assicurando che le sue narrazioni rimangano dominanti. Questa presa salda assicura che il cinema serva sia come intrattenimento sia come veicolo per i messaggi di Stato, mantenendo la continuità culturale piuttosto che segnalare una crisi".

Nulla è lasciato al caso dalla elefantiaca macchina della propaganda cinese. Nel 2018, Pechino ha centralizzato il suo controllo sui media, separando la supervisione dell'industria cinematografica dai media stampati, una mossa che ha svelato il desiderio di regolamentare maggiormente l'universo del cinema. Come scrive il collettivo di giornalismo investigativo Reportika, il reticolo di norme predisposto dal Partito comunista cinese "vigila sul corretto orientamento politico, imponendo che tutte le serie TV e il film promuovano i valori socialisti fondamentali, il patriottismo e l'unità nazionale, chiudendo, al contempo, a qualsiasi contenuto che potrebbe essere considerato dannoso per l'onore nazionale o la stabilità sociale".

Le linee guida imposte richiedono che attori, registi e i membri della troupe di produzione possiedano una "cultura politica" ortodossa, in modo che l’intero processo produttivo sia assoggettato all'ideologia del Partito. Questa censura pervasiva sottolinea la determinazione del Partito "a usare i media come strumento per promuovere il socialismo e sopprimere qualsiasi narrazione che potrebbe sfidare la sua autorità, sfilacciare o indebolire il tessuto sociale". Un "bollino rosso" che finisce per omogeneizzare (e spegnere) tutto. Creatività compresa.

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