«Io ragazza adottata, ho imparato...». Ecco cosa dà carne e sangue ai sogni
sabato 25 gennaio 2020

Caro direttore,
ho letto l’articolo riguardante le adozioni internazionali in crisi, e ho pensato che una testimonianza potrebbe aiutare, o per lo meno far entrare un po’ di più i lettori nel mondo dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze che sono italiani e al tempo stesso figli e figlie di un “amore oltreoceano”. Questo mondo è il mio mondo.
Mi chiamo Jessica, ho 20 anni, e sono esattamente 13 anni che la mia vita è cambiata, in meglio. Sono nata a Bogotà, in Colombia, i miei genitori non li ricordo bene, per il semplice fatto che mi hanno messa in una casa famiglia all’età di 6 anni. Quella parte della mia vita la ricordo veramente poco, spesso mi capita di immaginare, e quindi di mischiare la realtà passata con i sogni... Per i miei studi liceali ho scelto le scienze umane, non è stata una scelta casuale, ma una scelta mirata, anche per capire bene la mia storia. Sono ultima di 8 figli nati da due genitori instabili sia economicamente sia mentalmente, soprattutto mia madre. Sono sempre stata molto legata a una mia sorella di due anni più grande di me: si chiama Maria, è la persona più sensibile che io conosca, una ragazza cresciuta troppo in fretta che non perde mai la speranza di ritrovare la bambina che ha perso dentro di sé. All’età di 6 anni sono stata portata nella casa famiglia dove ho trascorso ben due anni della mia vita, è stato mio padre, che aveva perso il lavoro, a portarmici. È l’unico ricordo di cui ho una visione limpida: il rumore dei passi, il vento, le mie lacrime. Per la prima volta gridai con tutto il cuore, facendo sentire a tutti la mia voce, facendo sentire a tutti il mio dolore. Mi separarono da mia sorella, ma poi permisero che tornassimo insieme. Durante il giorno ero una comune bambina che andava a scuola, e mi piaceva molto andarci, di notte provavo a dormire e pensavo. Volevo solo avere una mia famiglia, volevo persone che mi amassero, persone in grado di mettere me in primo piano e non loro stessi. Pregavo, tanto, rimanevo ogni sera inginocchiata davanti al crocifisso chiedendo aiuto. Mi trovavo bene in quella casa famiglia, ma sapevo che quella non era la mia casa. Il 2007 è stato l’anno del cambiamento, è successo tutto in un doposcuola. La responsabile della casa – la chiamavamo zia Esperanza, una persona generosa e buona alla quale volevamo veramente bene – aveva un sorriso che partiva da un orecchio e andava all’altro, anche se i suoi occhi piangevano, non saprò mai se per la gioia o per la tristezza. Ci mandò dall’avvocato, la signora Olga. E divenne un giorno bellissimo: ci dissero che saremmo state adottate. A luglio 2007 eravamo a Roma, con quelli che già erano a tutti gli effetti i nostri nuovi genitori.
Gli anni prima del 2007 sono stati difficili, ma mi hanno aiutata ad apprezzare ogni piccola cosa che la vita offre. L’adozione non è un modo per riempire vuoti che ci sono all’interno delle coppie, l’adozione non è obbligo, non è qualcosa che si fa senza sentirlo al cento per cento, l’adozione è un vero e pieno gesto d’amore, è un modo per generare una famiglia, dandola a qualcuno che magari – come me – fino a quel momento l’ha solo sognata. La storia della mia adozione mi ha fatto imparare che non bisogna pensare alla vita con egoismo e con paura. Che si può aprire il cuore e la propria vita a un piccolo che vuole solo sognare e vivere con la spensieratezza di qualunque coetaneo che ha avuto la fortuna di nascere nel posto e nel tempo giusto. L’adozione è una scelta che bisogna fare con il cuore, e nient’altro. Sono una ragazza che è qui solo grazie a due persone che hanno deciso di dare il loro amore a due bambine non nate con i loro geni, ma che oggi sono più simili a loro di chiunque altro. Capisco chi prova ad avere figli a ogni costo con la scienza, provandoci e riprovandoci. Ma io ho sperimentato che non esiste sangue o distanza che tengano, e che si può essere famiglia con persone geneticamente del tutto diverse eppure uguali e vicine per sentimenti e spirito. Ho imparato che il sangue non è sempre un legame d’amore. La ringrazio, caro direttore, del tempo che ha speso per leggere queste righe, ringrazio i lettori, se mai le leggeranno. Anche se so che l’amore non ha bisogno di parole, ma di gesti.
Jessica Yuranny Cellini


Cara, carissima Jessica, questa lettera è un regalo davvero molto bello e importante. Sono davvero felice che tu me l’abbia affidata per condividerla con tutti gli altri amici lettori. L’accompagno semplicemente con un sorriso. So quanto impegnativa e a tratti impervia sia la strada dell’adozione, ma tu ci aiuti a vederla senza retorica e con gli occhi profondi e luminosi di una bambina che, assieme a sua sorella, è dovuta diventare grande troppo presto, ma ha anche avuto la grazia di incontrare lungo la strada della sua vita una mamma e un papà che non avevano i suoi geni, ma avevano la sua stessa fede, la sua stessa speranza, il suo stesso amore e hanno saputo dare carne e sangue ai suoi sogni. Grazie, Jessica, del tempo che hai speso per farci entrare nel mondo dei figli e delle figlie «di un amore oltreoceano»: figli e figlie, sorelle e fratelli nostri. Grazie.

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