sabato 12 giugno 2010
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Caro direttore,sono in mobilità e questo è l’unico introito della mia famiglia monoreddito. Prima del Decreto finanziario, dovevo finire la mobilità e passare in pensione con la prima finestra del gennaio 2013, con 40 anni di contributi. Con la nuova normativa, dovrei aspettare 12 mesi nei quali la mia famiglia sarebbe senza reddito. Ho speso, per me impiegato, un patrimonio per la scuola privata (ai sensi della Legge 63 del 10 febbraio 2000: scuola pubblica gestita da privati) per i miei due figli e ancora me lo permetto attingendo ai risparmi. Dovrò prepararmi all’improvviso inverno finanziario, eliminando questa spesa non obbligatoria e varie altre come Avvenire ecc., ma sarò ancora lontano dal ripianare il buco. Onestamente non finisco sotto i ponti, né mi mancherà il caldo a dicembre e una vacanza in montagna, però è una botta che fa male. Passi restare un anno in più al lavoro, ma per chi suo malgrado è senza, fare dodici mesi in bianco è un signor problema (e per qualcuno può essere un dramma). Sento tanto parlare di sacrifici – parola impegnativa! –, ma a me il reddito lo tolgono tutto. Dov’è l’equità per i tanti che sono nella mia stessa situazione ? Non mi piace fare il "piangina" in pubblico: se pubblica, preferisco metta le mie sole iniziali.

D.S., Bovisio Masciago (Mb)

P.S.: Detto tra noi: può essere ma non è ancora deciso che rinunci ad Avvenire (che leggo dai tempi di Narducci, pensi lei!), perché mia moglie (supplente, ma a causa dei tagli alla scuola quest’anno non l’hanno chiamata) dice che almeno così legge qualcosa...Si fa presto a dire "manovra". Ed è facile parlare di "risparmi necessari". Credo che la verità di questa lettera sia tutta nella luce che getta sugli effetti concreti di ogni intervento economico-finanziario sulla vita non di categorie astratte, ma di persone concrete. Credo cioè che l’amico lettore, che mi chiede di rispettare almeno un po’ il suo anonimato, ci aiuti a capire davvero che cosa accade ogni volta che una "misura" che cambia regole ed equilibri irrompe nella quotidianità di una famiglia. Ma D.S. ci ricorda anche qualcosa di più. Ci ricorda che siamo un popolo disposto a fare sacrifici per qualcosa che vale. Lo facciamo per i nostri cari, per gli amici, per coloro che sono e ci appaiono in difficoltà. E lo facciamo più spesso e con più entusiasmo di quanto si dica (basti pensare a che cosa sono stati capaci di donare gli italiani, in questi lunghissimi mesi di crisi, attraverso le grandi collette promosse nella Chiesa italiana per i più piegati e piagati dalla difficile congiuntura economica o per i terremotati dell’Aquilano e per quelli ben più "lontani" di Haiti e del Cile). Tutto ciò mi rafforza in una convinzione (forse dovrei limitarmi a dire in una speranza, ma voglio essere più netto e più forte): se la nostra classe dirigente riuscisse a parlare chiaro al Paese (cioè a tutti e a ciascuno di noi), proponendo in modo serio, ben comprensibile e concorde un grande sforzo comune di risanamento, la risposta sarebbe altrettanto seria e concorde. Ci libereremmo – così – dalla catena degli interventi tampone, degli episodi frutto di necessità e non di equità, dei sacrifici subiti con fatica e amarezza e non segnati dall’impegno a costruire un bene comune apprezzabile e riconoscibile. Carlo Azeglio Ciampi, qualche anno fa, appena concluso il suo servizio da presidente della Repubblica, provò con parole alte ed esplicite a spingere Governo e Parlamento in questa direzione, a suggerire di parlar chiaro agli italiani e dare a tutti noi un obiettivo grande e concreto da raggiungere insieme. Oggi, caro amico D.S., le sue parole amare e colme di dignità mi confermano che avremmo le energie morali per rispondere adeguatamente alle proposte di una politica davvero coraggiosa.
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