venerdì 1 ottobre 2010
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«Se viviamo nel momento e per il momento, perdiamo il legame non solo intellettuale ma anche biologico e psicologico con il futuro, e non ci sentiamo legati e sostenuti dall’insieme del creato». Da Zagabria, dove è riunito il Consiglio delle Conferenze episcopali europee, il cardinale Péter Erdö analizza la crisi demografica dell’Occidente. Quello dei figli che mancano e dell’invecchiamento progressivo della popolazione è un dato di realtà che accomuna l’Europa più, purtroppo, di tante promesse, o solenni enunciati. Ovunque si disegna il quadro di un ricambio generazionale insufficiente a mantenere le fasce di popolazione non più attiva; ovunque ci si domanda come saranno sostenibili le spese sanitarie, di fronte a una altissima percentuale di anziani.Sono temi, certo, che si mostreranno evidenti e gravi in un prossimo futuro, e per questo spesso elusi da classi politiche abituate a pensare nel breve periodo, tendenti a strategie a immediato ritorno, in sostanza a vivere nell’oggi. Colpisce al confronto, nel messaggio dei vescovi da Zagabria, lo sguardo capace di prospettiva e attento a un bene comune; quasi che, fra tante agenzie politiche e sociali, la principale rimasta a preoccuparsi – senza far caso al "consenso" – di un collettivo futuro, sia solo la Chiesa.È proprio un’Europa dimentica dell’avvenire ciò che allarma Erdö: nel primo aspetto che coniuga concretamente questo futuro – cioè che i figli nascano, che la storia continui. Ma quanto interessa, a noi europei, che continui? Nelle parole del presidente dei vescovi d’Europa lo specchio di un moto che attraversa le nostre città. Il venire meno della visione cristiana della vita, quella visione certa di un’origine, e di un destino, e dunque del vivere come un "andare verso", un cammino che opera e costruisce. Sguardo soppiantato nel giro di alcuni decenni dalla pretesa di un uomo "autonomo" e solo padrone del proprio destino: come «un adolescente eterno», dice il cardinale, l’occidentale moderno vuole disporre totalmente di sé; e dunque vive dell’attimo, di brevi effimeri momenti di appagamento. È in questo schiacciamento sul presente che i vescovi a Zagabria leggono la radice prima dell’Europa infeconda: come se ci si fosse collettivamente scordati che la vita è un compito, un seminare, un generoso sfruttare i talenti avuti, piuttosto che un catturare private "realizzazioni di sé" e attimi fuggenti.Del resto, è scritto anche nelle nostre città questo cambiamento di sguardo; ovunque si vada in Europa, del passato anche remoto ci restano i segni di città straordinariamente pensate, di palazzi, di chiese destinate a sfidare i millenni; iniziate dai padri e completate, secoli dopo, dai figli dei figli; come se fosse stato in quel tempo chiaro anche alla semplicità dei carpentieri, che vivere era un tramandare segni e speranza a quelli che sarebbero venuti. Se poi invece guardi all’urbanistica contemporanea, sciatta, distratta, alla bruttezza delle case e non poche volte, purtroppo, anche delle chiese, è una evidenza come la prospettiva lunga dell’Europa cristiana si sia interrotta in un uno sguardo breve, incurante di ciò che lascerà di sé: a cominciare dalla carne – dai figli. E certo, dicono i vescovi europei, le misure per aiutare la famiglia sono spesso «assolutamente urgenti» – in Italia, diremmo noi, lo sono più che mai – eppure non tutto è riducibile a una dimensione economica. Se siamo sinceri riconosciamo che quel che ci manca, come dice il cardinale Erdö, è «l’entusiasmo, l’energia che dà Dio». Quell’energia, in cui si riesce «ad essere pieni di gioia e quindi di speranza per assumere delle responsabilità per la vita», e a «lavorare per il bene di tutti». Per il bene comune – quello indicato pochi giorni fa dal cardinale Bagnasco come grande motore della vita sociale. Motore che pure langue – casualmente? – in questa Europa e questa Italia povere di figli; come se un futuro astratto, non concretamente incarnato, non ci bastasse più a destare risorse, e forze generose.
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