sabato 30 marzo 2024
Tra le cause cambiamento climatico e antropizzazione. Su 625 tipi di primati in 16 Paesi il 25% rischia l'estinzione. Solo un quinto delle diverse forme di vita sulla terra sarebbe stato catalogato
Una femmina di orango di Sumatra, specie a rischio estinzione

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Il pianeta Terra rischia di perdere una biodiversità che nemmeno conosciamo. Un paradosso che dovrebbe inquietarci e che invece avviene davanti a noi senza particolari mobilitazioni né interesse dei decisori. ll nostro mondo geografico risulta ormai cartografato con buona precisione, la biosfera, invece, è ancora in buona parte inesplorata. Alcune stime riportano che il numero totale delle specie viventi possa collocarsi intorno ai dieci milioni. Soltanto meno di due milioni sono state classificate e, tra queste, nemmeno il 10% è stato studiato in modo approfondito. Mentre la descrizione di nuove specie procede con lentezza, accade che alcune scompaiano a un ritmo d’estinzione che è centinaia di volte superiore a quello naturale.
Questo fenomeno sta avvenendo soprattutto a causa della distruzione degli habitat, dell’inquinamento e dell’introduzione di specie esotiche in ambienti in cui diventano predatori. Fin troppo ovvio ribadire che al banco degli imputati troviamo l’attività dell’uomo. Questo ragionamento ci porta a una seconda considerazione preoccupante: probabilmente ci sono specie che scompariranno senza mai aver trovato uno scienziato o una scienziata che si dedichi a essa.
In Italia, l’Istituto Superiore per la Protezione Ambientale ha pubblicato un ampio rapporto riassuntivo, in cui si leggono nuove e documentate riflessioni intorno a un tema dai risvolti epocali: la biodiversità sta scomparendo? Di certo, non sono i toni apocalittici quelli impiegati dal mondo della ricerca, eppure, senza troppe bende sugli occhi, è necessario fare i conti nuovamente con il tema dell’estinzione in relazione alla decrescita della biodiversità.
«Gli scienziati – come ricorda l’Istituto - non si sono ancora fatti una chiara idea di quante specie (dagli organismi unicellulari alle balene) esistano sulla faccia della Terra. Diversi studi riportano che il numero delle specie viventi sul pianeta possa variare da quattro a cento milioni. Solo una parte di esse – come si diceva in apertura – peraltro una parte decisamente piccola, è attualmente conosciuta. Le lacune più evidenti si registrano fra gli invertebrati e i funghi; inoltre, meno dell’1% dei batteri è stato catalogato».
Come controcanto va aggiunto un dato: ogni giorno pare che scompaiano circa cinquanta specie viventi. L’estinzione – come ben si sa - è un fatto completamente naturale e che si è sempre verificato nella storia della Terra. Una specie, in media, vive un milione di anni. Sono numeri molto diffusi e molto noti a chi si appassiona a questi temi. Che cosa inquieta però? Il problema è che attualmente la biodiversità si sta riducendo a un ritmo esponenziale; questo fa ritenere che siamo di fronte a un’estinzione delle specie superiore a quella che la Terra ha vissuto negli ultimi 65 milioni di anni, persino superiore a quella che segnò la fine dei dinosauri.
Sembrano ragionamenti da fantascienza e invece è triste realtà. Un’indagine condotta proprio dall’Istituto per la Protezione Ambientale ha rilevato che, negli ultimi anni, in sedici Paesi, dal Sud America all’Indonesia, il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute è in pericolo di estinzione, a causa di fattori ben precisi: caccia, commercio illegale, distruzione degli habitat e, in primo luogo ormai, cambiamenti climatici. Non deve passare inosservato il fatto che lo scorso mese di febbraio (secondo quanto rilevato dal Copernicus Climate Change Service, servizio meteo della Ue) è stato individuato come il mese più caldo di sempre.
Alcune specie, scorrendo i vari bollettini scientifici, a volte anche con dati discordanti, sono molto vicine all’estinzione totale, in quanto la loro popolazione si è ormai ridotta a qualche dozzina di individui, come nel caso dell’orangotango di Sumatra e del gorilla di Cross River, al confine tra Camerun e Nigeria. Quest’ultima specie era stata scoperta nel 1904: si era poi ritenuto che si fosse estinta, mentre alla fine degli anni ’80 del secolo scorso ne è stata ritrovata una bella e vivace comunità.
In aprile, a Fano, nelle Marche, si svolgerà un grande convegno internazionale, dal titolo Cambiamento della biodiversità nell’Antropocene. Le iniziative non sono solo queste. Rircordiamo il Museo MAcA di Torino, con Let It Grow, una campagna congiunta, organizzata da tre delle più grandi organizzazioni impegnate nel campo della Scienza: l'Associazione Europea degli Zoo e degli Acquari, la Rete Europea dei Centri Scientifici e dei Musei e il Botanic Garden Conservation.
Molto si potrebbe fare subito. Consideriamo il caso delle amate tartarughe, che, purtroppo, scambiano per cibo la plastica che galleggia nell’oceano. Quest’errore si rivela, per loro, fatale. Perdono il loro habitat anche a causa della costruzione di massa di grandi hotel sui litorali marini, luoghi dove dovrebbero deporre le uova. Inoltre, secondo le stime del WWF, ogni anno circa 150mila tartarughe marine finiscono catturate negli attrezzi da pesca nel Mediterraneo e, di queste, oltre 40mila muoiono. Dati che ci dicono come basterebbe un piccolo sforzo per evitare catastrofi.
C’è poi l’elefante di Sumatra. Questo animale è di una delle specie più a rischio di tutto il regno animale. Negli ultimi 25 anni, ha perso l’80% del suo habitat originario, principalmente a causa dell’intensa deforestazione operata per fare spazio alle dilaganti piantagioni di olio di palma e all’agricoltura intensiva. Si può infine ricordare, tra le tante, l’operazione “Un giorno da lupo”, condotta da alcuni scienziati italiani per la tutela dei lupi, sempre più a rischio, dalle Alpi alla Calabria.
Se da un lato la scienza ha compreso la gravità della questione, la politica, compresa quella europea, sonnecchia, aggiornando la raccolta dati al 2021, mentre i progetti attivi dai ricercatori del Vecchio Continente sono decisamente di gran pregio e meriterebbero uno spazio maggiore sui tavoli (per ora abbastanza deserti) della transizione ambientale e dell’azione contro il cambiamento climatico. Stando alle fonti ufficiali, si apprende che gli eurodeputati hanno accolto (nel 2020) con favore il fatto che la Ue si sia impegnata a proteggere almeno il 30% sia delle zone terrestri europee (foreste, zone umide, torbiere, praterie ed ecosistemi costieri) che di quelle marine, oltre a preservare il 10% almeno dei territori dell'Ue, fra cui le foreste primarie. Ma queste misure si sono annacquate per le proteste delle lobby economiche.
A guardare queste dichiarazioni viene ovviamente in mente che un tale entusiasmo si è registrato solo nel periodo strettamente post-pandemico perché, se solo qualcuno avesse aggiornato i dati, si sarebbe reso conto che, da più di un anno, si sta segnalando l’ecocidio del Danubio, lo scempio delle spiagge della Crimea, compromesse anche dai residui delle mine, la devastazione dei boschi del Donbass. Anche la natura soffre la guerra provocata dall’invasione russa, e non è una scoperta dell’ultim’ora.
«L’ambiente è sempre una vittima silenziosa delle guerre», disse nel 2014 il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. Il rapporto tra guerra e ambiente era stato già oggetto di due principi della Dichiarazione dell’Earth Summit di Rio de Janeiro nel 1992. Il principio 24 afferma: «La guerra esercita un’azione intrinsecamente distruttiva sullo sviluppo sostenibile» e il Principio 25 aggiunge: «La pace, lo sviluppo e la protezione dell’ambiente sono interdipendenti e indivisibili». Quello che è accaduto, sempre a causa della guerra, ai delfini del Mar Nero, inoltre, sta causando una scomparsa del mammifero in tutta l’area, da sempre popolata dai loro volteggi.
Sì, è vero: l’estinzione è un fatto naturale e la prima è stata causata proprio dallo scioglimento dei ghiacciai. Ma ora? E questo ritmo esponenziale? Ovviamente, saranno gli scienziati a rispondere a questi interrogativi. Qui possiamo arrivare a evidenti conclusioni: se la biodiversità sarà ridotta con questo ritmo, si estinguerà un enorme patrimonio biologico e perderemo occasioni che, oggi, sono ancora sconosciute: nuovi medicinali, modelli per la bionica, legnami, nuove fibre, piante adatte alla bonifica del suolo. Non solo. Sono a rischio anche i servizi ecosistemici a cui dobbiamo, tra l’altro, la fertilizzazione dei suoli e la stessa aria che respiriamo. Potrebbe essere a rischio la regolazione del clima e dell’acqua, la messa a disposizione dei minerali attraverso le catene alimentari, la fecondazione di moltissime specie vegetali proprio mediante l’impollinazione.

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