Africa e altre ingiustizie, voci inascoltate. Che a Sanremo se ne senta almeno una
martedì 7 febbraio 2017

Caro direttore,
lunedì 6 febbraio, a Tagadà su La7 è intervenuto padre Mussie Zerai: per caso ho seguito parte del suo intervento di denuncia dello sfruttamento della immigrazione e del sistema corrotto, e funzionale ai grandi affari, degli aiuti agli Stati africani. Mi sono allora ricordato di un libro che ho letto anni fa, scritto da Dambisa Moyo, per anni dirigente della Banca Mondiale prima e di Goldman Sachs poi, dal titolo “La carità che uccide” edito da Rizzoli, trovando collegamenti tra le tesi del padre e i dati raccolti dalla dottoressa Moyo, circa l’inadeguatezza dell’attuale sistema di aiuti all’Africa. La mia domanda è banale: perché persone come padre Zerai e Moyo non vengono prese in considerazione e ascoltate dalla politica? Perché i media offrono queste testimonianze in orari in cui la gente attiva non è a casa? Oggi inizia Sanremo 2017, saranno 5 giorni di ossessione in cui le coscienze saranno addomesticate da questa insulsa manifestazione, che si arroga un ruolo sociale solo perché riserverà una parola di circostanza ai terremotati, un messaggio di promozione al relativismo imperante e dirà una parola sulle difficoltà economiche, insomma solo parole fatue al costo milionario di compensi e odiosi sfarzi...

Luigi Buson Arre (Pd)

Lei, gentile e caro lettore, in questa lettera mette insieme diverse questioni e diversi aggrovigliati nodi. La ringrazio per le ottime intenzioni e l’efficacia, oltre che per la stringatezza, che forse l’ha indotta a dare per letti – e, dunque, per scontati – cronache e commenti pubblicati su queste pagine sul deludente rapporto tra fondi solidali destinati da diversi soggetti ai popoli africani e risultati effettivamente ottenuti: tra gli ultimi, l’editoriale schietto e profondo di Giulio Albanese, missionario e giornalista, di sabato scorso 4 febbraio 2017 che ho provocatoriamente intitolato «Buoni affari per l’Africa». A proposito di provocazioni, conosco ovviamente le regole che governano i titoli di libri e di giornali, ma non ne condivido sempre l’applicazione. E un titolo-choc come “La carità uccide” non riesco ad accettarlo. Perché non è vero. Perché è fuorviante, sebbene l’intenzione sia buona. Se è carità davvero, la carità non è mai assassina. La carità è amore, cioè l’esatto contrario dell’ostilità o dell’indifferenza che disprezzano e spezzano vite e fiducia negli altri, soprattutto nei poveri, nei piccoli e nei deboli. E perciò, ancora oggi, in tanti nostri fratelli e sorelle d’Africa. Le caricature della carità, quelle sì, possono invece uccidere. E ogni giorno ferisce e, persino, uccide – non ho timore di dirlo – anche una filantropia senz’anima perché punta a salvare solo l’anima di chi la concepisce, non le persone sfiorate (magari per propaganda) e niente affatto toccate da quel “gesto di bene”... Ma se il titolo del libro non mi va giù, la questione che lei pone, a partire dalla denuncia di don Mosè Zerai (noi lo chiamiamo col suo nome italiano, perché qui ha studiato ed è diventato prete) e dal libro di Dambisa Moyo, è decisiva. È un fatto che tanti fondi internazionali hanno purtroppo ingrassato, e ancora arricchiscono, intermediari senza scrupoli e governanti e burocrati corrotti nei Paesi di destinazione (e non solo). Questo, però, mentre tanti aiuti della “società civile” in Africa e altrove arrivavano, e arrivano, ai reali destinatari con straordinarie percentuali di fedeltà alle intenzioni dei donatori. Noi italiani lo sappiamo bene – e dovremmo ricordarcene – grazie alla solida rete di sostegno umanitario e di cooperazione internazionale allo sviluppo che, qui, viene sorretta “dal basso” e in esigente stereofonia con le istituzioni preposte soprattutto dal mondo cattolico. Quanto alle scelte televisive di spettacolo e di informazione, un problema c’è, eccome. Anche se ci sono bravi colleghi che fanno il possibile per portare in onda (a orari utili...) l’altro mondo, quello che abitualmente non si vede e non si vuole far vedere. Anche per questo penso che i grandi eventi «nazionalpopolari» – e, in Italia, il Festival di Sanremo lo è per eccellenza – possono essere strumenti importanti per trasmettere a platee vaste e altrimenti non facilmente raggiungibili messaggi preziosi e per contribuire, così, a far aprire gli occhi sui casi seri e gravi da affrontare e sulle vie giuste e buone da imboccare nel nostro mondo troppo pieno di ingiustizia, anzi di «inequità». Papa Francesco ce ne ha dato un esempio domenica scorsa, rivolgendosi direttamente agli statunitensi “convocati” davanti alla tv per il Superbowl, la partitissima di football americano che ogni anno mobilita e inchioda a sedie e poltrone decine e decine di milioni di spettatori. Certo, il Papa ha detto parole forti e coinvolgenti e non ha incassato alcun compenso, mentre altri fanno affari (o ci provano) e magari dicono cose all’insegna di un pensiero debolissimo eppure pieno di altezzosa sicumera. Non so che cosa ci darà Sanremo 2017. Purtroppo personaggi come don Zerai, la dottoressa Moyo o la giurista e soccorritrice Alganesh Fessaha non saliranno – salvo colpi di scena – sul palco del Festival della canzone italiana davanti a una platea che di nuovo si annuncia sterminata. Spero tuttavia che Carlo Conti ci sorprenda comunque positivamente. E oso persino sognare che da qualche artista coraggiosa o coraggioso arrivi un appello civile e forte che sappia scuotere tantissimi nostri concittadini e concittadine su un misfatto che i più ancora non conoscono. Penso, in particolare, alla colonizzazione dei grembi di donna attraverso la disumana pratica dell’utero in affitto. Non accadrà, ma se accadesse... sarebbe, una volta tanto, uno scandalo benedetto.

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