martedì 19 dicembre 2023
Il sistema va rivisto per superare i suoi limiti attuali e adeguarsi ai nuovi scenari italiani, che sono molto cambiati
Una unità di terapia intensiva di un ospedale italiano. Alle cure d’emergenza sempre più si dovranno affiancare programmi di prevenzione

Una unità di terapia intensiva di un ospedale italiano. Alle cure d’emergenza sempre più si dovranno affiancare programmi di prevenzione - Ansa

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«Globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona». Queste le parole con le quali Tina Anselmi, allora titolare del Ministero della Sanità (quello che oggi è il Ministero della Salute), definiva i principi cardine della legge 833, che il 23 dicembre 1978, dopo oltre 14 anni di attesa, portava all’istituzione del Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Si abilitavano le numerose e settoriali mutue esistenti e si creava un unico ente nazionale in grado di erogare ai cittadini le necessarie prestazioni sanitarie. Il medico della mutua si trasformava in medico di famiglia (chiamato “medico di base”), un operatore sanitario presente attivamente sul territorio per assistere gli ammalati nel proprio ambulatorio o a domicilio, consentendo loro di affrontare e superare la malattia in modo semplice, efficace ed efficiente.

L’idea di un servizio sanitario nazionale era nata in Gran Bretagna nel 1948, pensata e puntualizzata dall’economista e sociologo William Beveridge (1879-1963), con l’obiettivo di realizzare una sanità equa e solidale, sostenuta finanziariamente dalle tasse dei cittadini, gratuita per tutti nel momento del bisogno. Un sistema alternativo a quello privatistico e a quello mutualistico, che aveva dato vita al National Health Service, un sistema medico a cui s’era ispirato il nostro Servizio sanitario nazionale, così come molte altre esperienze di sanità pubblica universalistica.

Di quelle premesse iniziali formulate nella legge fondativa del Ssn che cosa resta oggi? Una domanda scottante alla luce degli scioperi dei camici bianchi di questi giorni. E il bilancio è purtroppo, a parere di chi scrive, sconfortante. L’aspirazione di rendere possibile per tutti il diritto alla salute, come previsto dall’articolo 32 della nostra Costituzione, non si è tradotta in realtà. A livello istituzionale inefficienza e inadeguatezza delle strutture costringono quasi il 20 per cento della popolazione a ricorrere alle assicurazioni private per curarsi.

La medicina territoriale si trova limitata nelle risorse umane (mancano i medici per una prospettiva miope nella valutazione del bisogno) e condizionata dall’insufficienza dei finanziamenti (non adeguati alle reali necessità per un’efficace assistenza sanitaria). Inoltre, per ricevere una idonea assistenza medica l’80 per cento della popolazione che risiede al Sud o nelle Isole è costretto a una faticosa migrazione sanitaria al Nord. Una situazione, sotto questi profili, inaccettabile.

La prospettiva storica aiuta a comprendere come sia necessario un radicale cambiamento atto a rifondare il Servizio sanitario nazionale: un prezioso patrimonio che non va abolito, uno straordinario moltiplicatore di salute, un importante strumento di coesione sociale e un grande fattore di crescita economica. Va però ripensato perché nel tempo è cambiato il quadro sanitario ed epidemiologico. Va inoltre rivitalizzato tenendo conto del mutato panorama medico-scientifico. Va anche rilanciato alla luce delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia informatica. Va infine razionalizzato in considerazione di un uso più adeguato e consapevole del farmaco. E bisogna ancora realizzare un migliore coordinamento tra Stato e Regioni, attraverso una maggiore integrazione con regole precise e semplici.

Il Ssn dovrebbe diventare un moderno sistema sociosanitario in grado di rispondere alle nuove esigenze di una popolazione che demograficamente è sempre più anziana. In Italia, oltre 15 milioni di persone hanno più di 65 anni, vivono sovente sole e sono affette da patologie croniche. La risposta ai loro bisogni non può essere solo medica e ospedalocentrica, ma deve comprendere una più globale assistenza sociosanitaria sul territorio, in grado di garantire interventi efficaci ed efficienti soprattutto ai pazienti più fragili.

La medicina del futuro non potrà più essere basata solo sull’aspetto diagnostico-curativo, ma dovrà migliorare gli interventi preventivi e potenziare gli approcci riabilitativi. Gli operatori sanitari dovranno occuparsi, oltre che dell’evento patologico, del prima e del dopo la malattia: evitare, quando possibile, che essa si manifesti (prevenzione) e ridurre, in modo rilevante, le sue conseguenze (riabilitazione).

In ambito tecnologico oggi la medicina non può più prescindere dalla telemedicina, dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale. La sanità digitale può offrire notevoli vantaggi (si pensi al fascicolo sanitario elettronico che può già accompagnare il paziente ovunque, trasmettendo in tempo reale le sue informazioni mediche e proteggendo i suoi dati sensibili da occhi indiscreti) e diminuire le diseguaglianze tra ambiti territoriali diversi (Nord e Sud) e tra strutture differenti logisticamente (grandi complessi nosocomiali rispetto a strutture ospedaliere più piccole). L’intelligenza artificiale consente oggi di elaborare una mole di dati impossibile da gestire, non solo da parte di un singolo operatore, ma anche da intere équipe di medici, individuando percorsi diagnostici e approcci terapeutici che possono essere di grande utilità per il malato.

L’impatto che in medicina ha l’assunzione dei farmaci è rilevante, ma il loro impiego deve essere consapevole e mirato, eticamente corretto ed economicamente sostenibile. S’impone un’urgente revisione del Prontuario Terapeutico, per razionalizzare l’inserimento dei medicinali prescrivibili e unificare i prezzi dei medesimi principi attivi. Per i medici, inoltre, dovrebbe essere sostenuta dallo Stato un’informazione indipendente e un’educazione farmacologica che permetta di conoscere i rischi connessi alle interazioni dovute a un’eccessiva politerapia e di apprendere il corretto uso dei farmaci per età (bambini, adulti, anziani) e per genere (donna o uomo).

Pur nel rispetto delle autonomie sanitarie regionali – come prevede la Costituzione – un coordinamento centrale da parte del ministero della Salute resta insostituibile, per evitare che politiche locali disgiunte impediscano un’efficace azione nazionale, come evidenziato dall’approccio al problema dell’antibioticoresistenza e dalla gestione della recente pandemia. È fondamentale poi che, pur con un’adeguata e indispensabile attenzione alla spesa e alla componente economica, la sanità del futuro non sia gestita da burocrati e contabili, ma da operatori che uniscano competenza medica alla preparazione gestionale, l’impegno antropologico alla sensibilità etica. Il Ssn a venire dovrà essere efficiente ed efficace nelle procedure, ma soprattutto rispettoso e attento al malato, una persona che soffre e che ha bisogno di un aiuto sia tecnico che umano.

Le aziende sanitarie (territoriali e ospedaliere) non dovrebbero venire meno all’intrinseco significato del termine da cui origina il loro nome. Azienda deriva dal latino agenda, che significa “cose da farsi” e indica una struttura che opera nel sistema economico-sociale per produrre servizi necessari al soddisfacimento dei bisogni umani. Le aziende sanitarie non possono che essere quindi istituzioni deputate a produrre i servizi indispensabili per la salute della persona malata. È questo il vero punto di partenza per la rinascita e il rilancio del nostro Servizio sanitario nazionale.

Storico della medicina, Università Bicocca, Milano

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