Il piccolo Alfie, le scelte dell'Italia, lo «ius vitae»
venerdì 27 aprile 2018

Caro direttore,
mentre a Liverpool la vita del piccolo Alfie è appesa a un filo (cioè alle decisioni di medici e giudici sul suo miglior interesse) da noi si è aperto il dibattito. Non tanto nell’opinione pubblica, che sembra schierata tutta dalla parte dei genitori, contro un sistema sanitario e giuridico che appare incomprensibile, ingiusto e violento, ma tra gli esperti, in particolare chi si occupa di bioetica. Le domande sono molte: è accettabile, per esempio, che l’ospedale possa letteralmente sequestrare il bimbo, e che i genitori non possano cambiare medici e struttura, e portarlo altrove?

È giusto che l’Italia, attraverso pressioni diplomatiche e politiche, come la concessione della cittadinanza, intervenga nelle questioni interne di uno Stato estero? E un caso come questo, che turba e commuove gli italiani, si potrebbe verificare da noi dopo l’approvazione della legge sul biotestamento? Michela Marzano, su 'Repubblica', ha definito il tentativo del governo italiano di trasferire il bimbo in Italia «un pasticcio» e ha messo in campo lo ius soli, sostenendo – se ho capito bene – che allora bisogna prima di tutto concedere il diritto di cittadinanza ai giovani nati in Italia, e chiedendosi in questa storia inglese «cosa c’entra l’Italia».

Ma lo ius vitae, il diritto a vivere, dovrebbe venire prima di ogni altro diritto, prima di ogni questione di cittadinanza o di nazionalità. È per questo che diamo lo status di rifugiato a chi in patria corre il rischio di essere perseguitato o ucciso, è per questo che la morte di tanti migranti in mare non può lasciarci indifferenti. È per questo, quindi, che non si può voltare la testa da un’altra parte, dire 'non ci riguarda', 'non ci interessa perché non avviene a casa nostra'.

C’è un bambino, di cui un giudice stabilisce la morte, perché, data la sua «scarsa qualità di vita» è nel suo miglior interesse morire. Quando tutto ciò accade in un Paese europeo culla della democrazia liberale, e non in una plaga remota soggetta a un sistema totalitario, non ci deve riguardare? Il punto fondamentale, il rischio che getta un’ombra anche su di noi, è quello di una deriva che distorce il sistema democratico, e che, in nome dell’autodeterminazione e della libertà di scelta porta a una situazione paradossale come quella di Alfie, a cui lo Stato vuole dare la morte, senza che possa nemmeno ricoverarsi altrove.

Dov’è finita la tanto sbandierata libertà di cura? E dove tutte le battaglie contro lo Stato che decide sulla vita dei cittadini, contro la pena di morte, dove sono quelli che – giustamente – gridano «nessuno tocchi Caino»? Caino no, ma Abele, un piccolo Abele di 23 mesi, sì? E purtroppo devo aggiungere che i molti che sostengono che un caso del genere non si potrebbe verificare in Italia, a mio parere sbagliano. La legge sul biotestamento – e questa volta ha ragione Marzano a tirarla in ballo –, nel caso di conflitti, rimette la decisione al giudice, e questo anche se il conflitto riguarda un minore.

Dunque intervenire è importante, schierarsi con chiarezza dalla parte del diritto a vivere è decisivo. Proprio perché abbiamo malauguratamente approvato quella legge, proprio per evitare che anche il nostro Paese imbocchi la stessa strada dell’Inghilterra, proprio perché non ci siano confusioni tra accanimento terapeutico ed eutanasia, oggi è giusto combattere per la vita di Alfie, e anch’io sono orgogliosa che il mio Paese lo stia facendo.

Già deputata e sottosegretaria alla Salute


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