giovedì 23 giugno 2022
Alle elezioni autunnali di metà mandato si presenta un agguerrito schieramento di repubblicani sostenuti dall’ex presidente pronti a raccogliere lo scontento verso il leader dem
L'ascesa dei candidati di Trump nell'America che non ama Biden

Reuters

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«Non lo so. Non so se davvero sia in corso una guerra di classe. E non so nemmeno se gli errori dei democratici costeranno a Joe Biden la rielezione. Di certo pagherà pegno a novembre, e non per la guerra in Ucraina. A noi americani, diciamolo con franchezza, di quel conflitto importa poco o nulla. E sai perché? Perché a differenza del Vietnam o dell’Afghanistan non arrivano gli aerei carichi di sacchi neri con i corpi dei nostri ragazzi». Christopher Jenkins, originario del North Carolina, ha lavorato per anni al Census Bureau (l’Ufficio statistico federale) e ora crea modelli previsionali sui flussi elettorali a New York City. Del Bureau ha conservato la metodologia analitica: «California, Texas e Florida sono i campi di battaglia dove si giocherà la partita elettorale: sono i più popolosi e più ricchi, insieme a New York». Non si può negare però che una pattuglia di spiritelli – spooks, come usano dire gli americani – svolazzano sopra i cieli americani disseminando ansia e strane premonizioni. Come la possibile rivincita di Donald Trump. Le elezioni di novembre sono il primo test. Dove Biden – che raccoglie un affaticato consenso del 40% – parte in netto svantaggio mentre i trumpiani stanno guadagnando terreno.

Sulla carta, Trump è vincente su quasi tutti i capitoli. Una parte considerevole dell’elettorato americano sotto pelle rimpiange le scelte che Trump ha fatto nei quattro anni del suo turbolento mandato, dai dazi punitivi alla Cina al pugno duro contro l’immigrazione clandestina, dal lassez faire nei confronti delle potente lobby delle armi (le stragi nelle scuole, la follia della libera vendita di armi automatiche a chicchessia non hanno incrinato il partito del Secondo emendamento, che raccoglie consensi ecumenici sia fra i dem che fra i repubblicani), fino al braccio di ferro con Mosca, per il quale Trump si erge spietato nella critica più severa che Biden abbia finora incassato: quella di una politica ondivaga, ambigua, incerta, esattamente ciò che non occorre fare con i russi, che rispettano più la forza che la diplomazia.

Ma se di Trump è facile immaginare un’ansia di rivincita per le presidenziali del 2024, ancora tutta da decifrare è la rimonta che sta avvenendo nelle grandi periferie americane e il contemporaneo emergere di figure già carismatiche prima ancora di aver affrontato le urne. Come il trentottenne scrittore- imprenditore James David Vance, autore di un fortunato libro di memorie, Hillbilly Elegy, da noi tradotto come Elegia americana (giacché il termine “hillbilly” sta per “bifolco”, un bianco del nordest povero e di costumi arretrati, un po’ come i “cafoni” di Ignazio Silone o il Poor White di Sherwood Anderson, anche lui dell’Ohio come Vance). Non a caso Vance è uscito vittorioso dalle primarie repubblicane e si presenterà a novembre come candidato repubblicano dell’Ohio al Senato. Vance, il povero bianco dell’America rurale e devastata dalla deindustrializzazione che si riscatta fino ad approdare alla Yale Law School e poi va a combattere in Iraq, è l’emblema di ciò che resta del sogno americano, l’icona perfetta di quella vasta e sonnolenta porzione dello stremato Lumpenproletariat bianco che i grandi giornali americani non hanno voluto considerare e che viceversa Donald Trump aveva perfettamente individuato e sfruttato con il crasso cinismo dell’ousider privo di regole.

Quella vasta comunità di anime perse nell’incertezza del futuro esiste ancora. È la stessa che ha dato l’assalto al Campidoglio, che difende il diritto a possedere armi, che reclama una rinascita industriale dopo che la crisi dell’automotive in Michigan, Ohio, Indiana e Illinois ha azzerato le speranze di una vita migliore per milioni di colletti blu, anche se proprio con Trump i salari avevano ricominciato a crescere. Come sta crescendo l’armata trumpiana. Ted Budd in North Carolina, Doug Mastriano in Pennsylvania per la carica di governatore. Evidentemente il brand Trump funziona: dei ventisette candidati cui ha assicurato l’appoggio, soltanto due hanno perduto la corsa alle primarie. Un’armata, che cresce e si muove a passo di carica, riesumando quello “ stop the Steal” (fermiamo il furto elettorale del 2020) che è stato lo slogan con cui gli sciamani cornuti hanno dato l’assalto al Campidoglio e che in un angolo ombroso della propria coscienza pensa che Trump abbia davvero perso per i brogli di Biden. Un’armata attenta a evitare i giovani e puntare sugli ultra-cinquantenni e gli anziani. Non per nulla l’aspettativa di vita dei maschi è di 78 anni, delle donne 82.

Un disastro sociale e antropologico, secondo il tycoon della Tesla e di SpaceX, Elon Musk. Fosse per lui, né Biden né Trump potrebbero correre per la Casa Bianca: «Ha senso per un politico continuare dopo i settant’anni?» dice, con uno sguardo obliquo rivolto anche a Nancy Pelosi, ottantaduenne speaker della Camera dei Rappresentanti e ben decisa a ripresentarsi per le prossime elezioni di midterm. Una provocazione di sapore anarco-californiano, tipica dei grandi innovatori come Steve Jobs e in certa misura pure Jeff Bezos? Forse, ma Musk è ben consapevole che la gerontocrazia americana non è poi così diversa da quella brezneviana di cara memoria. «Soltanto Obama ha stravolto le regole: era giovane, era colored, era innovativo – dice Jenkins –. Poi è tornata in scena Hillary e il cimitero degli elefanti ha tirato un sospiro di sollievo: “finalmente una di noi”. Che poi il duello l’abbia vinto Donald Trump non cambia le cose: anche lui stava tagliando il traguardo dei settanta. Come Ronald Reagan nel 1981. Gli altri, da Johnson a Nixon a Clinton, al confronto erano dei giovanotti».

Quelle che Trump e i centocinquanta candidati per cui ha fatto l’endorsement hanno capito è che sotto il cielo rabbuiato dall’inflazione e dalla crescita ancora incerta si sta svolgendo l’ennesimo episodio di lotta di classe. Quella del Black Lives Matter, certamente, ma anche quella fra i bianchi po- veri e i bianchi ricchi. La stessa che una serie televisiva come Ozark, che ha spopolato su Netflix per quattro seguitissime stagioni, aveva perfettamente fatto emergere già da anni: i benestanti Byrde di Chicago da una parte e i disastrati Langmore del Missouri dall’altra. In mezzo, i narcotrafficanti dei cartelli messicani ai quali entrambi finiscono per rivolgersi. «Perché alla fine è il denaro che ti fa decidere per chi votare», assicura Lorraine John Hicks, californiana trapiantata a New York e nel recente passato sostenitrice di Alexandria Ocasio-Cortez. I dem, per cui ha lavorato, l’hanno delusa: «È un partito allo sbando, senza idee e senza candidati, con figure estremiste come Bernie Sanders e la stessa Ocasio-Cortez e figure scialbe come Kamala Harris e come tutti i candidati che si fanno impallinare dai mastini che Trump manda in avanscoperta alle primarie. In attesa dell’avviso di sfratto che si appresta a dare a Biden fra due anni». Cosa assai probabile già da novembre, considerato il bassissimo approval di Biden.

Tutto diverso invece nel Grand Old Party: un sondaggio dell’Università del Massachusetts rivela che almeno metà dei repubblicani ritiene che Biden abbia rubato la vittoria a Trump. «Il nostro sistema giudiziario è corrotto, i nostri giudici sono sempre di parte, compromessi o intimiditi!», tuona il tycoon di Mar-a-Lago su Truth Social, la piattaforma che ha creato dopo esser stato bandito da Facebook e Twitter all’indomani dell’assalto al Campidoglio. La sua app è fra le più scaricate degli Stati Uniti.

Ma attenzione: il trumpismo copiosamente foraggiato da “The Donald” potrebbe divorare il suo stesso creatore. La sua nemesi rischia di essere il quarantaquattrenne governatore della Florida Ron De Santis, ex militare, ex Tea-Party, populista e conservatore, antiabortista radicale, sostenitore accanito dell’innegoziabile libertà di possedere armi da fuoco. Una figura talmente popolare da non aver bisogno del sostegno ufficiale di Trump. E forse per questo è l’avversario che l’ex presidente ora teme di più.

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