La rivoluzione del «perdono»
venerdì 20 maggio 2022

L’ha detto e scritto Gemma Calabresi alla vigilia dei 50 anni dall’uccisione del marito: a condannarlo a morte fu la spietata e sistematica opera di 'disincarnazione' della sua figura a opera di chi – a diverso titolo – armò la mano omicida di chi poi sparò. Si era lavorato, cioè, per spogliare Luigi della sua qualità umana, sino a farne un simbolo astratto, da odiare e abbattere.

Ed è dal recupero dell’umanità di chi fu condannato per quel crimine che la vedova del commissario racconta di essere risalita dal baratro del dolore. Tornare a vedere una persona in chi pareva solo il responsabile di un efferato delitto, sapendo riconoscere oltre alla tenebra anche il bene di cui può essere capace, ce lo restituisce simile. Malgrado tutto.
È il pensiero che sgorga osservando la figura esile e spaurita di Vadim Shishimarin, sergente dell’esercito russo, catturato in battaglia nel villaggio di Chupakhivkai dopo aver ucciso a sangue freddo Oleksandr Shelipov, 62 anni, pensionato ucraino che passava in bici e sembrava aver sorpreso un manipolo di soldati di Mosca in fuga. Tra loro Vadim, che – così riferisce – sarebbe stato costretto da un suo commilitone a sparare all’involontario testimone.

L’immagine del 21enne soldato che davanti a un tribunale di Kiev ammette tremando la sua completa colpevolezza è stata esibita dalle autorità ucraine come la dimostrazione che gli autori di crimini di guerra (e cosa, in una guerra, non lo è?) non la passeranno liscia. Una fretta dettata dalla crudeltà dei codici bellici nei quali siamo immersi da quasi tre mesi e che a lungo andare rischiano di assuefarci anche a questa disumanizzazione del 'nemico', alla quale c’è da attendersi che il Cremlino risponderà con la medesima moneta – se non peggio – avendo ora in mano, dopo la loro resa, quelli che per Kiev sono gli 'eroi della Azovstal'. Un linguaggio primordiale al quale nessuno sembra sapersi sottrarre – l’hanno fatto dall’inizio le autorità russe, dipingendo gli ucraini come 'nazisti' – e che ripropone in tempo di guerra ciò che abbiamo conosciuto nei nostri 'anni di piombo': additare un uomo come il simbolo stesso del crimine per poter odiare senza scrupoli di coscienza lui e quelli come lui, e giustificare così l’uso della violenza, della guerra.


Ma è proprio dentro questa notte che abbiamo udito giovedì una nota dissonante, finalmente familiare. Perché Vadim ha chiesto perdono. «So che non sarete in grado di perdonarmi – ha detto, reso ancor più fragile dalla sua improvvisa preghiera – ma comunque vi chiedo perdono».

Ansa

Da quanto desideravamo sentire questa parola dentro l’«inutile strage», pronunciata da chiunque, come una sfida alla tempesta? Davvero importa se l’ha detta nel disperato tentativo di sottrarsi ai rigori di una condanna che potrebbe consegnarlo all’ergastolo? Se anche così fosse, in quel comprensibile panico, che tutti avremmo, vediamo tornare in Vadim l’umanità che la divisa, il battaglione, gli assurdi ordini di Putin, la destinazione al fronte, il fucile automatico, gli spari contro un passante inerme gli avevano sottratto, anche davanti a se stesso.

E neppure contano i colori della bandiera per la quale combatteva: Vadim – il sergente Shishimarin, colpevole di omicidio dentro uno scempio orrendo dove risparmiare vite umane non è contemplato – ha cercato di sottrarsi con tutte le sue forze alla morsa dell’odio e all’ombra insostenibile del suo stesso delitto con uno scatto di umanità non previsto dai codici militari. L’ha fatto implorando la giuria e Katerina, la vedova che piange Oleksandr. È tornato in sé, in qualche modo. E nella sua sparuta figura abbiamo scorto qualcosa che non può non appartenerci, comunque la vediamo su questa infame guerra, se ci è davvero cara, sopra ogni altra considerazione, la pace. Dopo settimane in cui ci ha assordati il frastuono dei cannoni, ora dunque è risuonata sul campo di battaglia – flebile, sovrastata eppure rivoluzionaria – anche una parola sempre bandita quando l’umanità viene rimossa per lasciare campo libero alla violenza. Pronunciare 'perdono', in russo o in ucraino, ha il potere di riaprire un cielo che si era fatto insopportabilmente cupo. Può bastare anche solo uno spiraglio, ora, per ricordarci chi siamo.

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