«Vi racconto perché ad Haiti non c'è più infanzia»

di Costanza Oliva
L'educatore haitiano Rodney spiega che nell'isola «i minori non hanno punti di riferimento, si occupano dei fratelli più piccoli, lavorano, muoiono per un bicchiere d’acqua. A volte, sparano»
November 2, 2025
«Vi racconto perché ad Haiti non c'è più infanzia»
People wait to receive food from the World Food Program (WFP) on the Isidor Jean Louis College in Port-au-Prince, Haiti, 05 June 2024 (Issued 07 June 2024). In the central kitchen of the World Food Program (WFP) in the Haitian capital of Port-au-Prince, employees work against a clock to combat hunger preparing meals for delivery to camps, where thousands of families await food, which is sometimes the only meal of the day for many of them. One such shelter is the Isidor Jean Louis College, situated in the center of Port-au-Prince hosting 600 refugees for several months following the abandonment of their homes due to the violence perpetrated by armed gangs. EPA/ORLANDO BARRIA
«Una rosa attraente che si trova in mezzo a una marea di spine». Il pedagogista Jean Dominique Conti Rodney recupera un’immagine del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, per parlare della sua Haiti. «Ma non arriveranno mai ad occultare la bellezza di cui quella rosa è portatrice». Capovolge lo sguardo quel tanto che basta per ricordare che Haiti non è solo quelle spine di violenza, di povertà, di instabilità politica. «È un Paese che ha ancora tanto da dire. Non dimentichiamo che è stata la prima repubblica nera, non dimentichiamo il coraggio di persone che per prime hanno saputo combattere la schiavitù. Abbiamo una storia che parla di giustizia, di uguaglianza, di equità, di libertà».
C’è dolore e speranza nelle sue parole. Conti Rodney è arrivato in Italia nel 2012 per entrare in seminario. Ha proseguito il suo percorso con una laurea in Scienze dell’educazione e una specializzazione in pedagogia. Oggi si occupa di tutela di minori per una cooperativa di Ferrara e insegna alle superiori. Il suo pensiero va proprio ai più piccoli: «Essere bambini ad Haiti significa dover provare il peso della responsabilità e della sofferenza fin da subito». Bambini solo all’anagrafe, privati però dell’infanzia. «Spesso non hanno un punto di riferimento, e quando non hanno neanche dieci anni si trovano a doversi occupare dei fratelli più piccoli, sono costretti ad andare a lavorare, muoiono per un bicchiere d’acqua». Centinaia di scuole sono state chiuse perché distrutte, occupate o trasformate in rifugi per gli sfollati. Secondo i dati dell’Unicef, sono quasi 1,5 milioni i bambini che non vanno a scuola o sono a rischio di abbandonarla. «La situazione è peggiorata soprattutto nella zona di Port-au-Prince. I bambini non escono di casa per paura di essere sequestrati dalle gang, si nascondono sotto il letto per trovare riparo dal rumore degli spari. Attualmente non esiste più un vero sistema scolastico né un tessuto educativo, e senza istruzione non c’è progresso». Anche laddove le scuole fossero aperte, mancano le condizioni di base: «Come possono esserci in un posto in cui ci sono bambini che girano con un’arma in mano anziché con uno zaino sulle spalle?». Si stima che tra il 30 e il 50% dei gruppi armati sia composto da minori.
«Sono sicuro che non riuscirò a vedere il cambiamento di Haiti perché parliamo di un sistema che ha dei problemi a 360 gradi, e ricostruirlo richiede tempo». «Ma non possiamo perdere la speranza: dobbiamo agire, perché altrimenti l’identità di questo Paese, che ha fatto la storia sotto tanti aspetti, rischia di perdersi. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva». Un agire che ciascuno può interpretare secondo le proprie possibilità e modalità, per non lasciare spazio al silenzio e all’indifferenza. Per Conti Rodney questa presa di coscienza passa attraverso il patriottismo e il senso di collettività. Anche per questo ha lavorato per quasi un anno all’organizzazione di un evento a Grottaferrata. «Ci aspettavamo una decina di persone, ma alla fine eravamo più di un centinaio». Lavoratori, famiglie, bambini e studenti haitiani che vivono in Italia uniti in un racconto corale. «Abbiamo parlato del nostro passato, del presente…», fa una piccola pausa. «Trovare parole per parlare del futuro è stato più difficile».
È stato un momento per ritrovare la forza della collettività, che è passata anche attraverso i sapori e i ricordi di casa. «Abbiamo iniziato la giornata con la tipica colazione haitiana, l’akasan, fatto con latte, farina e spezie». Si sofferma sui vari piatti: mentre ne ripete i nomi in creolo e ne ricorda gli ingredienti, si vede che i ricordi lo attraversano. «Abbiamo giocato, condiviso abbracci e dolori, e poi c’è stata una partita di calcio tra giovani universitari contro preti e seminaristi haitiani». Il nome scelto per l’evento è lakou. «È il cortile, il giardino, dove si ritrovano i vicini, dove si cucina insieme, si studia, si chiacchiera, si fa festa. Dove la sera le famiglie, con i figli, gli amici e i bambini del quartiere, si ritrovano per raccontare le favole prima di andare a dormire». Anche per l’evento hanno scelto uno spazio all’aperto. Un modo per ricreare, anche se da lontano, quell’atmosfera di accoglienza e comunità che oggi ad Haiti è diventata troppo pericolosa da vivere davvero. «È una battaglia persa, ma non è finita la guerra: c’è una bellezza in mezzo a tutte quelle spine che rimarrà sempre viva».

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