La rivolta degli sfollati di Haiti: «Noi, scudi umani del boss»

di Lucia Capuzzi Inviata a Port-au-Prince
La tragica situazione dei 2.800 ammassati a Delmas: prima cacciati dalle bande armate, poi invitati a rientrare nelle stesse aree: «Meglio sfollati che ostaggi delle gang»
October 6, 2025
La rivolta degli sfollati di Haiti: «Noi, scudi umani del boss»
In oltre 2.800 si accalcano in un ex liceo di Delmas, senz’acqua, elettricità e solo tre bagni. Eppure l’auto-proclamato comitato di gestione mantiene un minimo di pulizia
«Nemmeno le assi. Niente. Solo una macchia di fango e detriti. Avevano sradicato perfino le fondamenta. La mia casa era stata letteralmente cancellata. Era modesta ma ci avevo messo vent’anni per averla....». Martin – il nome è di fantasia per questioni di sicurezza – ha provato a tornare. Non subito. Quando, il 26 agosto scorso, il capo della federazione di gang Viv Ansanm, Jimmy Chérizier alias «Barbecue», aveva lanciato un appello social per «invitare» gli sfollati di Port-au-Prince a rientrare nei propri quartieri, era rimasto perplesso. «Potevamo fidarci? Le bande che ci avevano costretti alla fuga, si sarebbero ritirate e ci avrebbero lasciati in pace?». Ci ha messo un mese per trovare il coraggio di andare a dare un’occhiata. La settimana scorsa, però, si è finalmente recato a Solino, quartiere a ridosso del centro. Là abitava fino al 25 aprile 2024, il giorno in cui si è insediato il Consiglio presidenziale di transizione incaricato di colmare il vuoto istituzionale lasciato dalle dimissioni dell’ex premier Ariel Henry, costretto a lasciare dalla rivolta della neonata Viv Ansanm. Nelle stesse ore, quest’ultima aveva messo a ferro e fuoco la città, devastando Solino. Martin era scappato con la moglie, i quattro figli e gli abiti che aveva indosso. «Per i successivi diciassette mesi ho solo desiderato tornare. Forse, invece, sarebbe stato meglio non rimetterci più piede. È stato tremendo. Ovunque c’erano ruderi bruciacchiati e muri divelti, buche profonde laceravano le strade. Mi sono reso conto di non avere più nulla a cui tornare», racconta il 50enne seduto in un’aula di quello che fino a dieci mesi fa era un liceo. Ora è uno dei 246 campi spontanei in cui si ammassano 2.860 degli 1,3 milioni di profughi dei gruppi armati. Quasi la metà si concentra nella capitale e dintorni. In edifici pubblici, piazze o scuole, come quella nella parte alta di Delmas dove, lo scorso novembre, è approdato – dopo aver vagato per altri due insediamenti - Martin, il quale chiede di non rivelarne nome e esatta ubicazione.
«Così posso parlare liberamente e dire cosa penso dell’offerta di Barbecue. Ci ha traditi, era un poliziotto, dovrebbe combattere le gang non diventarne capo. Viv Ansanm ha distrutto tutto quel che avevamo», esclama accalorato, mentre il resto dell’auto-proclamato «comitato di gestione» del campo annuisce. Quanti lo compongono - come gli altri rifugiati della struttura - preferiscono restare in edificio sgangherato senza elettricità e acqua, con tre bagni e 15 persone per stanza piuttosto che tornare sotto il dominio delle bande. La gran parte degli sfollati la pensa nello stesso modo. Come Avvenire può testimoniare, Carrefour de l’Aéroport, la strada che collega lo scalo alle colline, da cui i gruppi armati si sono formalmente ritirati da qualche settimana, è deserta. Per i quartieri intorno, appena qualche passante si aggira sperduto fra palazzi sventrati e uffici sprangati. In sottofondo, di tanto in tanto, echeggia il sibilo dei proiettili. Le «vedette» armati, piazzate qua e là, però, assicurano: «Non c’è pericolo. È il governo che tiene gli abitanti lontano». Paul è arrabbiato: «Barbecue vuole utilizzare come scudi umani noi e i nostri figli perché ha paura dei mercenari Usa».
Sono almeno sei mesi che i contractor statunitensi si aggirano, invisibili, per l’isola. Il mese scorso, Erik Prince, fondatore della controversa Blackwater e ora titolare della Vectus global, ha confermato di essere stato «assunto» per dieci anni dal primo ministro Alix Didier Fils-Aimé in persona per ripristinare la sicurezza, non si capisce con quali fondi dato che le casse pubbliche sono vuote. Già prima dell’annuncio del più famoso «signore della guerra», accanito sostenitore di Donald Trump fin dal primo mandato, comunque, la presenza dei miliziani era stata rivelata dai droni che, dal tramonto, martellano le roccheforti delle gang, vere o presunte, a caccia dei «comandanti». Due settimane fa, velivoli senza pilota-kamikaze hanno colpito la baraccopoli di Simón Pelé mentre Albert Steevenson alias Djouma, come da tradizione, distribuiva giocattoli ai bimbi del vicinato per celebrare il proprio compleanno: otto di loro, tra i due e i dieci anni, sono stati dilaniati dalle esplosioni. Il 25 maggio lo stesso era accaduto durante la festa di André Johnson, meglio noto come Izo, al vertice di «5 Segonn», tra le formazioni più spietate: il boss e rapper era rimasto ferito, un numero imprecisato di ragazzini era morto. Non esiste un bilancio ufficiale delle vittime civili dei droni. Secondo la Rete nazionale di difesa dei diritti umani, sono almeno trecento.
Morti che si aggiungono al bagno di sangue in atto: oltre 16mila dal 2022, secondo gli ultimi dati Onu, in media 15 al giorno. Dalla presidenza di Jovenal Moïse, egli stesso assassinato in una congiura di palazzo nel 2021, la violenza non fa che crescere. Ora si profila una nuova escalation. Martedì, il Consiglio di sicurezza Onu ha approvato la trasformazione dell’attuale missione multinazionale a guida kenyana mai diventata veramente operativa in una forza anti-gang di 5.500 truppe. «Barbecue vuole circondarsi di civili per cercare di costringere le autorità a fermarsi. Ma queste ultime non lo faranno, non gli importa di noi. Se tornassimo, resteremmo intrappolati nel fuoco incrociato – afferma con tono sconfortato Marcel –. Per questo rimaniamo qui. Almeno fino a quando ci lasceranno. Il Comune di Delmas ha fatto di tutto per farci andare via. L’associazione Solidarities international si era offerta di costruire delle docce ma non gliel’hanno permesso. Quando, lo scorso maggio, un anziano è morto, il municipio ci ha detto che non poteva fare niente perché avevamo scelto noi di occupare la scuola. L’unica scelta che abbiamo fatto, in realtà, è quella di provare a sopravvivere, pur in condizioni estreme». A differenza della gran parte degli insediamenti di Port-au-Prince, tuttavia, nella scuola di Delmas non ci sono ammassi di rifiuti ovunque.
I pochi averi delle famiglie, negli spazi angusti e soffocanti, sono, comunque, disposti in modo ordinato. È il Comitato di gestione ad incaricarsi di mantenere un minimo di pulizia e sicurezza. «Senz’armi, però. Non siamo miliiziani né mercenari. Le pistole corrompono gli esseri umani – conclude Jean –. Barbecue prima era una brava persona: organizzava tornei di calcio per i ragazzini di Solino. Poi sono arrivati i Kalashnikov ed è cambiato. Ma io voglio credere che un frammento di quell’uomo ci sia ancora dentro di lui. Per questo vorrei dirgli: «Perché ti spacci per un rivoluzionario e, invece, fai la guerra ai tuoi connazionali? Guarda i bambini che dormono ammassati nei campi. Come puoi tollerarlo»»

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