I giovani continuano a credere nella speranza che offre il lavoro
Nonostante salari bassi, precarietà e stress, l’impiego resta una promessa di futuro: non solo mezzo di sostentamento, ma spazio di realizzazione, equilibrio di vita e fiducia

Come vivono, percepiscono o immaginano il lavoro i giovani italiani tra i 18 e i 34 anni? Quali significati, e valori colgono nella dimensione lavorativa, l’ambito della vita che da sempre meglio interpreta le aspirazioni di realizzazione personale, intercettando la dimensione del futuro e della speranza? A queste domande ha provato a fornire risposte l’indagine Ipsos svolta per l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo di Milano e pubblicata nel Rapporto Giovani 2025 (Giovani e lavoro: il senso mai perduto, a cura di G. Assirelli, F. Introini, R. Lodigiani e C. Pasqualini). L’importanza di analizzare il rapporto con il mondo del lavoro risiede nel fatto che questo tende a essere letto come “macroindicatore” della complessiva condizione giovanile, e ciò avviene non soltanto perché viviamo in una società “capitalista”, ma anche perché, come è ben chiaro alla sociologia, esso tocca tutte le altre dimensioni dell’essere umano, materiali e “immateriali”, cioè la sfera dei valori, dei significati, dei progetti di vita e del senso della propria esistenza.
Tutto questo sembra valere, in maniera particolare, per le giovani generazioni di oggi, alle quali si mostra una realtà ambivalente. Da un lato, infatti, troviamo le retoriche “postmoderne” per le quali l’essere umano vale quanto la numerosità e l’intensità delle esperienze che riesce a collezionare nell’arco della propria vita, di modo che il lavoro deve sempre essere sia più gratificante in sé stesso, sia base necessaria a garantire la possibilità di accedere ad altri tipi di esperienza ludico-estetica. Dall’altro, ecco invece un lavoro sempre meno in grado di mantenere questa “promessa”, tanto per i bassi livelli retribuitivi, pur a fronte di un forte e costante impegno (si pensi al cosiddetto fenomeno dei working poors), quanto per i problemi legati alla sua sicurezza (in termini di tutela della propria incolumità fisica e di “stabilità”) e per gli alti livelli di stress che esso comporta.
In base a quanto emerso dall’indagine (condotta da Ipsos nel 2023 intervistando un campione di 2002 persone), la priorità fondamentale nella vita dei giovani è quella di realizzarsi personalmente nel lavoro, opzione scelta dal 14,4% dei rispondenti, seguita dal desiderio di avere tempo per dedicarsi alla famiglia, indicato dal 13,6%. L’analisi completa delle risposte a questa domanda, che prevedeva una risposta “secca” tra molteplici opzioni, ha messo in evidenza come il lavoro sia connesso prevalentemente alla sfera degli obiettivi privati sia in senso strumentale, cioè inteso come “mezzo per”, sia in senso “espressivo”, in quanto significativo “per me” e per la mia identità. La dimensione pubblica e sociale del lavoro, inteso dunque come occasione per dare il proprio contributo alla società, appare invece più contenuta, anche se particolarmente apprezzata dai giovani con più elevato capitale umano, ovvero con titolo di studio proprio o dei propri genitori più elevato. Coloro che invece indicano come priorità il tempo per la famiglia sono in particolare le femmine, i più “anziani”, i giovani e le giovani che già lavorano. Le evidenze sembrano quindi confermare alcune tendenze radicate nella società, con il ciclo di vita e il genere che, verosimilmente legano (ancora) maggiormente a compiti di cura all’interno del proprio nucleo familiare sia esso ascritto o elettivo. Altro aspetto interessante è che il tempo libero ha un valore “condizionato”: è importante se dedicato alla famiglia o ai propri hobby (9,5%) meno se votato alle relazioni amicali. Guardando i dati in base alla condizione occupazionale emerge che la percentuale più alta di chi indica come priorità le libertà offerte dallo smart working sono i Neet (circa il 16%, contro l’11% del dato aggregato).
Entrando più in profondità nella sfera dei significati, si vede che il termine maggiormente associato alla parola “lavoro” è “responsabilità” (21,3%), cui seguono “passione” (16,4%) ma anche il suo opposto, ovvero “necessità” (16,3%). Anche in questo caso a discriminare le risposte sono da un lato la tensione acquisitiva, più forte tra gli studenti e i giovanissimi, che orienta alla passione, e dall’altro l’età più anziana, il basso titolo di studio, l’essere Neet, che spingono l’ago della bilancia verso il polo della “necessità”. Non molto rilevante il termine “vocazione” (5,2%, ma arriva all’8,5% nel caso di figli/e di laureate/i) forse perché si tratta di un termine connotato da un linguaggio – religioso – spesso distante dai giovani ma anche per via del fatto che il mondo del lavoro appare loro complesso e poco intelligibile, fornendo quindi un contesto nel quale è molto difficile mettere a fuoco un progetto di vita chiaro. Ad un ipotetico lavoro ideale i giovani chiedono soprattutto ciò che è più centrale per una progettualità di vita a tutto tondo. Esso deve infatti essere “stabile” per il 56%, con “retribuzione elevata” per il 54,8%, ma che allo stesso tempo non sia “totalizzante a scapito delle altre sfere di vita” secondo il 54,9%. Significativo, inoltre, che la dimensione etica, cioè un lavoro che rispetti i propri principi (53,3%), e la possibilità di crescita personale e culturale (52,2%) abbiano importanza pari a quella della possibilità di fare carriera (52,3%).
Al lavoro i giovani chiedono inoltre libertà e flessibilità organizzativa che non significa però solo smart working (apprezzato dal 14,4% dei rispondenti): questa è infatti, retribuzione a parte, la caratteristica principale che dovrebbe avere il proprio lavoro ideale (20%), alla quale segue, con minimo scarto percentuale, la presenza di un supporto per il benessere dei lavoratori (18,2%). Sono aspetti legati sicuramente alla complessiva qualità della vita, ma dicono anche di una maggiore sensibilità per la qualità della employee experience, se è vero che, allo stesso tempo, il 36,4% dei rispondenti indica come priorità che dovrebbero avere le organizzazioni il benessere psicofisico dei propri dipendenti (il 14% chiede invece trasparenza e legalità, il 12% sicurezza dell’ambiente e delle condizioni di lavoro). Forse è proprio in queste risposte che si rende o ancora visibile il lascito di pandemia e lockdown.
Ciò che però forse conta davvero, per i nostri e le nostre giovani lo si desume, per via “negativa”, dalle motivazioni per le quali sarebbero disposti a lasciare un lavoro ben retribuito e a tempo indeterminato. Per il 37,1% la ragione di un cambiamento come questo avrebbe a che fare con l’impossibilità di conciliare l’occupazione con la chance di avere una famiglia e dei figli. Un dato che si presenta congruente con un’altra risposta, che in un certo senso potrebbe essere anche considerata come “indicatore” della pratica cosiddetta del quiet quitting: il 42,4% afferma, cioè, di essere molto d’accordo (o addirittura di averlo già messo in pratica) con il limitarsi a svolgere solo le ore lavorative stabilite dal contratto, prendendo distanza da quella tendenza all’overworking tipica di molti ritmi lavorativi odierni. Ed è indicativo che la percentuale di chi attua questa strategia era del 32,4% nella rilevazione del 2022, cioè ben dieci punti più bassa. Per quanto riguarda il modo in cui i giovani si percepiscono nei confronti del mondo del lavoro, emerge significativamente la consapevolezza di vivere in un modo lavorativo che, per scarsità di offerta, li costringe ad atteggiamenti adattivi, pur nella convinzione di appartenere a generazioni più determinate nel rifiutare lavori ritenuti forme di sfruttamento (il 49,2% di accordo).
In conclusione, i nostri giovani ci sembrano vivere e pensare il lavoro con piglio riflessivo e pragmatico, privilegiando, per utilizzare il linguaggio del sociologo Dahrendorf, il suo ruolo di chance di vita più che mera opzione. Il che significa, in altri termini, non perdersi nel mondo dei “possibili”, per quanto affascinanti, inseguendo professioni “up to date” ma trovare quella capace di conferire radicamento sociale, permettendo di sostenere una progettualità individuale e familiare. Un altro tema rilevante è che il capitale umano si rivela risorsa fondamentale sia per avere una mentalità più orientata all’achievement, agli obiettivi e ai risultati, sia per cogliere e apprezzare il valore sociale e pubblico del lavoro, sia infine come risorsa in termini di coping e resilienza nei confronti delle situazioni stressanti. Un tema che, pur nel mondo delle professioni digitali conferma la forte rilevanza del rapporto formazione/lavoro e più in generale welfare/lavoro. Così, anche se emerge dalla nostra indagine una conoscenza e un utilizzo non molto elevati di quanto pensato per loro dalle politiche dai servizi al lavoro, questo dato dovrebbe spronare le istituzioni a cercare le vie e le modalità più idonee per intercettare bisogni e interessi delle giovani generazioni.
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