L'Avvento: Dio nel tempo, non nel "subito"
Questo periodo di attesa ci educa a riconoscere un Dio che non irrompe, non brucia le tappe. Che viene nel tempo, lo prende sul serio, lo rispetta, per incontrarci. Ad un Dio così siamo sempre impreparati,

Se si dissolve la dimensione del tempo, si trascina inevitabilmente con sé anche quella dello spazio. Tempo e spazio sono gemelli siamesi della condizione umana: se crolla uno, l’altro svanisce ‒ lo abbiamo sottolineato nelle domeniche precedenti ‒ e con essi si dissolve la scena stessa in cui l’uomo vive, pensa, ama, spera. Senza una fisiologia sana del tempo ‒ senza attese, maturazioni, passaggi, fatiche, lentezze, conquiste ‒ anche la terra diventa inconsistente, pura superficie senza spessore. Nulla accade davvero, tutto scorre senza incarnarsi. E senza un corretto vissuto e una buona pratica del tempo anche un Dio che ci cerca nel tempo, anzi vuole entrarci ‒ incredibile! ‒ facendosi corpo, non ci trova più, perché il Dio di Gesù Cristo non si connette con noi ma entra in relazione attraverso un corpo.
L’Avvento allora è il grande antidoto a questa evaporazione del tempo e del corpo. Ci educa a riconoscere un Dio che non irrompe, non travolge, non brucia le tappe. Un Dio che viene nel tempo, lo prende sul serio, lo rispetta nella sua struttura fragile e ostinata, per incontrarci. Non lo sospende, non lo salta, non lo sostituisce con una scorciatoia divina. Lo attraversa tutto. Lo salva dall’interno. Ad un Dio così siamo sempre impreparati, dobbiamo abbandonare rinascenti pregiudizi, proiezioni caricaturali della nostra idea di Dio. Infatti, è proprio qui che si colloca la grande eresia cristiana, più o meno strisciante, di ogni epoca: rifiutare integralmente il paradosso di un Dio che si fa uomo. Un Dio che assume limiti, lentezze, silenzi; che cresce, che impara, che soffre; un Dio che non evita lo scandalo del tempo ma lo abbraccia fino in fondo. Chi rifiuta questa carne, rifiuta il cristianesimo: lo sostituisce con un’idea religiosa apparentemente più pura, ma in realtà disumana. La spiritualità ‒ anche del nostro tempo ‒ vive questo rischio permanente: saltare la dimensione del tempo, accedere al divino senza corpo.
Perché l’esperienza dell’uomo, tutta intera, si snoda nella tensione tra un abisso e un vertice: da un lato la disperazione che precipita fino al suicidio, il rifiuto totale dello spazio e del tempo; dall’altro l’estasi che vorrebbe abbandonarli per sempre, annullarsi nel divino, dissolvere ogni limite. L’accesso immediato all’eterno. Ma la rivelazione cristiana sceglie un’altra via: non la fuga dal tempo, né la sua negazione; non la vertigine del nulla, né quella dell’immediatezza. Sceglie l’Incarnazione, cioè la permanenza. Ecco perché attendere non è un verbo marginale: è la radice viva di cercare, sperare, credere, amare, sopportare. Il Dio che si preannuncia con l’Avvento non è un dio “subitaneo”, pronto all’uso. Non offre soluzioni istantanee. La sua Parola, come ogni parola, per essere intesa e accolta ha bisogno di tempo: deve essere interpretata e tradotta nella lingua che ogni giorno in ciascuno di noi inciampa e matura. Non si manifesta con la potenza che schiaccia, ma con la delicatezza che interpella. Senza prepararci in questo tempo di Avvento non lo riconosceremo quando, come un seme, crescerà nella lentezza di una gestazione, fuggirà per non essere vittima di una strage di bambini, si nasconderà a Nazareth, camminerà sulle strade polverose della Palestina, vivrà la normalità dei giorni uguali. Rifiutando gli effetti speciali, le scorciatoie dell’onnipotenza, il fascino del subito. In questo tempo che ci resta possiamo crescere nella fede in un Dio così, che si nutre di lentezza abitata; di speranza come tempo consegnato; di amore che è durata, non emozione e impulso.
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